Il fallimento della spending review: 40 miliardi, quasi tutti usati per le coperture
Secondo il calcolo di molti tecnici negli ultimi dieci anni i risparmi che si possono considerare davvero frutto della revisione della spesa non superano il 30% delle riduzioni operate
di Marco Rogari
4' di lettura
Poco più di 40 miliardi: meno del 5% delle attuali uscite complessive dello stato, pari a oltre 870 miliardi. È la dote garantita dai tagli di spesa nel periodo compreso tra il 2014 e il 2020, ovvero in quella che era stata annunciata come la nuova era della spending review. Ma quasi tutte queste risorse sono state utilizzate per “coprire” altre misure o come concorso indiretto alla riduzione del deficit.
E, in ogni caso, secondo molti tecnici, negli ultimi dieci anni i risparmi da considerare veramente frutto, in maniera diretta o indiretta, della classica revisione della spesa oscillano tra il 25 e il 30%, non di più, delle riduzioni operate. Una fetta quasi trascurabile. Non a caso una vera frenata delle uscite non si è mai registrata.
Gli incrementi di spesa della manovra 2020
Anche l’ultima manovra da oltre 30 miliardi, targata Conte-Gualtieri e attualmente all’esame del Parlamento, produce, stando alle valutazioni del Servizio Bilancio del Senato, «incrementi netti» di spese «per circa 0,7 miliardi nel 2020, 8,5 miliardi nel 2021 e 11,3 miliardi nel 2022». Eppure la Corte dei conti, in audizione a Palazzo Madama, ha quantificato in quasi 4 miliardi le minori uscite garantite dalla manovra, anche se ha sottolineato che i risparmi arrivano quasi in toto da definanziamenti e riprogrammazioni di spesa.
Sempre la magistratura contabile ha poi fatto notare che «nel complesso, rispetto ai valori tendenziali, la spesa finale al netto degli interessi si mantiene sostanzialmente stabile nel 2020 (45,4% contro il 45,2 del tendenziale) ma cresce di circa mezzo punto nel 2022 rispetto al quadro prima della manovra».
I tentativi e il bilancio
L’era della “spending” appare insomma ancora ferma all’anno zero, o quasi. E il bilancio dei tentativi degli ultimi dodici anni appare lontano dallo scenario immaginato da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia nel secondo Governo Prodi. Da quel momento si sono succedute varie iniziative.
Si parte da quella per la Finanza pubblica, presieduta da Gilberto Muraro, che nel 2008 consegna un rapporto con “90 raccomandazioni”. Ma tutto si ferma fino al 2012 quando il governo Monti nomina Enrico Bondi commissario per la “spending”, con l’obiettivo di realizzare risparmi per 19,5 miliardi in 3 anni.
Nel frattempo l’allora ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, elabora un rapporto con cui viene individuata una massa di spesa di 80 miliardi potenzialmente aggredibile. Dopo soli 8 mesi Bondi lascia l’incarico. Gli succede l’allora Ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, ma, anche in questo caso, per pochi mesi.
Il piano (inattuato) Cottarelli e l’incarico a Gutgeld
Con l’arrivo a Palazzo Chigi del Governo guidato da Enrico Letta viene nominato commissario Carlo Cottarelli. Che nel 2014 prepara un piano per ridurre la spesa a regime di 33,6 miliardi nel 2016. Piano che resta in gran parte inattuato. Nel 2015 con l’esecutivo Renzi l’incarico di commissario per la “spending” è affidato da Yoram Gutgeld.
Che due anni dopo presenta un bilancio della sua attività dal quale emerge che tra il 2014 (considerando anche le misure adottate in quell’anno) e il 2017 sono stati realizzati 29,9 miliardi di risparmi. La fetta più consistente di queste risorse viene però impiegata per varie coperture, comprese quelle del bonus 80 euro. Ai 29,9 miliardi andrebbero aggiunti circa 2,5 miliardi di “effetto spending” sul 2018.
I nuovi criteri con il govero Gentiloni
Con la manovra 2018, varata dal governo Gentiloni, viene recepita l’ultima riforma del bilancio dello Stato, con cui la spending review diventa maggiormente vincolante anche in termini di programmazione. Sulla base di questi nuovi criteri è previsto un taglio di 1 miliardo sui budget dei ministeri.
Il nuovo ciclo di programmazione della “spending” viene però subito dimenticato dal Governo Conte-1, che nella manovra 2019 prevede tagli “ordinari” per circa 1,4 miliardi e una clausola “salva-conti” da 2 miliardi (con il congelamento di diversi capitoli di spesa dei ministeri). Clausola che è scattata in via permanente con la correzione estiva realizzata dal tandem Conte-Tria per contenere il deficit ed evitare la procedura d’infrazione Ue.
Le riduzioni nella manovra del Conte II
Si arriva all’ultima manovra con circa 4 miliardi di riduzione di spesa (oltre all’uso di 2,6 miliardi con decorrenza 2019, ai fini dell’indebitamento Pa, di accantonamenti dei ministeri previsti dal decreto fiscale) e un’ulteriore clausola di garanzia “salva-conti” da 1 miliardo, che resterà congelata almeno fino a giugno 2020. In tutto più di 40 miliardi. Con una spending review ancora da rendere operativa.
Tanto è vero che il ministro Roberto Gualtieri ha già annunciato l’istituzione di una nuova commissione. I precedenti non aiutano ad essere ottimisti. Soprattutto l’ultimo: i commissari nominati dal Governo “giallo-verde” Conte-1 (Laura Castelli e Massimo Garavaglia) sono rimasti in carica poco più di una settimana.
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