Srm: al Sud il 27% del turismo archeologico
Presentata oggi alla BMTA, che si tiene a Paestum fino a domenica, la 2° edizione della ricerca del centro studi di Intesa Sanpaolo. Il riconoscimento dell’Unesco può rappresentare un volano di sviluppo economico solo se supportato da un piano strategico
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L’Italia è una eccellenza mondiale per numero e diversità dei suoi 45 siti archeologici Unesco riconosciuti e il Mezzogiorno ne conta ben 12 , ovvero il 27%. In questo segmento, storico-archeologico, quanto ad attrazione di turisti, il Mezzogiorno se la cava molto bene e in linea con il resto del Paese: a fronte infatti del 27% di aree storico archeologiche riconosciute dall’Unesco, il Sud della Penisola conta il 30% dei visitatori ed il 27% degli introiti totali.
Non è così, invece, se consideriamo più in generale la spesa indotta dal turismo culturale (non solo archeologico) internazionale: in questo caso solo 7,4 miliardi, dei 44,3 spesi in Italia da viaggiatori internazionali, ovvero meno del 17%, arriva nelle regioni meridionali. È soprattutto il flusso di turisti italiani ad innalzare le performance del sistema museale ed archeologico meridionale, mentre la spesa turistica degli stranieri resta ancora bassa.
Srm, il centro studi collegato a Intesa Sanpaolo, anche quest’anno ha aggiornato la sua Ricerca su turismo culturale e turismo storico archeologico. Ricerca che viene presentata oggi a Paestum nell’ambito della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, giunta alla XXV edizione (chiude domenica 5 novembre) e promossa dalla società Leader di Ugo Picarelli. La BMTA, nei suoi 500 mq, ospiterà laboratori, 50 incontri con Soprintendenti e direttori di Parchi e Musei, gli stand dei Parchi Archeologici, le esposizioni di 150 soggetti tra cui le Regioni italiane, ma anche 20 Paesi esteri.
La ricerca di Srm, soffermandosi ancora sul segmento storico archeologico, rileva anche che nel Sud questo settore ha ampi spazi di crescita. Il Mezzogiorno potrebbe infatti valorizzare moltissimi territori per la sua rete di siti Unesco distribuita fra Puglia, Basilicata, Sicilia, Sardegna (oltre che la Campania), mentre oggi il turismo storico archeologico è polarizzato sulla sola Campania e, in particolar modo, sulla provincia di Napoli (che da sola assorbe il 67% circa di tutti i visitatori del sistema museale ed architettonico-monumentale del Meridione). Quest’ultima, con i suoi oltre 3,5 milioni di visitatori, è seconda soltanto a Roma, distanziando persino i 2,5 milioni di visitatori di Firenze. È ovvio che l’area di Pompei ha una funzione catalizzatrice primaria.
La Campania assorbe più dell’80% dei flussi di turismo storico-archeologico del Mezzogiorno, con le altre regioni del Sud in posizione del tutto secondaria: la Puglia è solo nona, la Sardegna undicesima, seguita da Calabria e Basilicata, Molise ed Abruzzo sono i fanalini di coda.
Un’altra caratteristica di questa tipologia turistica è quella di una stagionalità che, seppur molto meno marcata rispetto a quella del turismo generale, è comunque esistente, con i visitatori che si concentrano soprattutto nel trimestre estivo, con un minimo fra marzo ed aprile. Pur non risentendo, o risentendo in termini più lievi, di fattori di tipo climatico, il turismo culturale ha comunque una certa stagionalità, che non garantisce agli operatori un flusso di cassa costante per tutto l’anno.
Lo studio di Srm si pone poi un quesito: quale impatto produce sul territorio il riconoscimento Unesco di un sito storico o culturale? È questa infatti la domanda che guida la ricerca «Cultura e Archeologia per un turismo sostenibile e di qualità. L’impatto del brand Unesco sui territori», di Srm. E focalizza l’attenzione su tre casi di studio di siti Unesco per il Mezzogiorno: Pompei, Palermo-Cefalù e Matera (quest’ultima destinataria anche della nomina a capitale europea della cultura nel 2019).
«Alla fine del lavoro di ricerca risulta ancora controverso e non facile dare una risposta univoca e in qualche modo “definitiva” sul peso del riconoscimento Unesco come fattore di sviluppo locale», dice Salvio Capasso, responsabile Impresa & Territori di Srm.
In termini più propriamente di sviluppo locale, si conclude che la qualità del risultato dipende anche da quanto un sito sia già conosciuto nei circuiti culturali e turistici prima del suo riconoscimento. Oppure da un piano di sviluppo imponente e molto calato sul territorio, come nel caso di Matera. Insomma, per il centro studi si può affermare che il semplice riconoscimento del sito da parte dell’Unesco, assunto da solo, non basta: potrebbe produrre o non effetti significativi sul tessuto produttivo direttamente legato al turismo a seconda che sia associato o non a “politiche attive”.
Si rileva che il riconoscimento Unesco ha un forte potenziale di attrazione e generazione di investimenti di difesa, protezione e recupero del bene storico archeologico riconosciuto. Tali investimenti, essenzialmente di recupero e restauro, possono a loro volta attivare un circuito locale di valorizzazione immobiliare, di aumento del valore dei terreni e dei beni fondiari e degli immobili del territorio circostante. In conclusione, si ribadisce che la letteratura in materia sembra evidenziare che il riconoscimento Unesco di un sito possa essere soltanto un tassello di una strategia di sviluppo più ampia, che prenda in considerazione i punti di forza e debolezza di tutta l’area circostante, che consideri ad esempio il tema dell’accessibilità al sito attraverso opportuni investimenti infrastrutturali, che riesca a dialogare con i circuiti turistici internazionali più importanti e che poggi su un solido capitale sociale costituito da un network robusto di attori locali protagonisti dello sviluppo. In tale strategia più ampia, il riconoscimento è un elemento di marketing e valorizzazione dell’immagine interessante ed utile.
Far crescere il turismo culturale per Srm è molto importante. Se l’Italia, a parità di spesa, per ogni presenza turistica aggiuntiva nel Paese, genera 144 euro di valore aggiunto, nel caso del turismo culturale, tale valore sale a 145 euro. Quindi, il turismo culturale attiva più ricchezza rispetto a quello balneare (145€ contro 128€), ma il moltiplicatore continua a crescere se si considera il turismo sostenibile (150,6 €), enogastronomico (151,7 €) ed ancor più quello d’affari (176,6 €).
È evidente che lo sviluppo di un sistema turistico “integrato” (ad esempio culturale, enogastronomico e folkloristico) nell’ambito di un sito UNESCO, che sfrutti le sinergie organizzative e «produttive» con i settori attigui, accresca la potenzialità economica del territorio.
Ciò vale, in modo particolare per il Mezzogiorno, caratterizzato da un’ampia offerta di siti archeologici UNESCO ma da un moltiplicatore di 131,7 €, ancora distante dal dato nazionale, anche se in recupero nell’ultimo decennio. In particolare, negli anni 2010-2019 è cresciuto dell’86%, valore più alto rispetto alla media nazionale (+39%).
In conclusione, deve essere chiaro che le politiche di sviluppo che fanno leva su un riconoscimento dell’Unesco devono essere sufficientemente “taylor made” da adattarsi ai diversi contesti dei tanti siti Unesco esistenti e non c’è un ricettario univoco dello sviluppo locale che possa essere fornito.
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