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Stalking i post social della mamma contro assistente sociale e psicologa

Confermata la condanna per atti persecutori e diffamazione, reati commessi per screditare le professioniste chiamate ad esprimersi sull’affidamento della figlia

di Patrizia Maciocchi

(Phanie / AGF)

2' di lettura

Stalking e diffamazione per la madre che minaccia e denigra con post sui social e pedinamenti la psicologa e l’assistente sociale, chiamate ad esprimersi sulla sua idoneità genitoriale per l’affidamento della figlia nell’ambito della causa di separazione. La Cassazione, conferma la condanna per la donna, respingendo al mittente l’argomento del “fine sociale” che l’avrebbe animata e spinta ad usare nei confronti delle due professioniste le espressioni “incriminate”. La ricorrente, classe ’73, nel tentativo di condizionare e screditare il lavoro della psicologa aveva invaso i social con post, destinati in genere ai gruppi di madri scontente degli affidi, nei quali accusava la professionista di essere collusa e protetta dalla mafia e di formulare perizie false. Agli attacchi in rete aveva unito pedinamenti e appostamenti. Un trattamento non molto diverso era stato riservato all’assistente sociale.

Atti persecutori e diffamazione

La Suprema corte ha ora confermato la condanna per il reato di atti persecutori e diffamazione, reato quest’ultimo certo non esclusa dalla necessità di combattere una battaglia giudiziaria e “civile” nella quale era in gioco l’affidamento della figlia della coppia. Ad avviso della Cassazione, i giudici di merito hanno valutato correttamente l’insieme dei comportamenti addebitati alla ricorrente tra i quali «appostamenti e pubblicazione di post dal chiaro contenuto minatorio», pubblicati quasi ogni giorno, come idonei «a integrare la condotta materiale di molestia e/o minaccia» descritta dall’articolo 612 bis del codice penale sullo stalking. La Suprema corte ricorda che, come sottolineato dalla Corte d’Appello, «che anche le sole pubblicazioni di post su svariati social network sono sufficienti, da sole, a integrare il reato di atti persecutori». Quanto ai post pubblicati, la Cassazione rileva che erano connotati da «virulenza e ossessiva ripetitività», oltre che dal carattere “minatorio”. Nè si può pensare che le accuse ingiustificate e lesive dell’altrui reputazione possano essere scriminante dal diritto di critica.

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