ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùSostenibilità

Stanley (Patagonia): «Istituzioni lente, le aziende guidino il cambiamento green»

Il «philosophy director» dell’azienda Usa parla di collaborazione tra concorrenti per salvaguardare l’ambiente. E sul made in Italy: «È sinonimo di alta qualità e l'alta qualità ha in sé il concetto di sostenibilità»

di Ilaria Vesentini

Vincent Stanley, Director of Philosophy at Patagonia Inc Reuters

5' di lettura

«La sostenibilità è un concetto semplice, significa agire senza danneggiare nessuno, stare sul mercato con prodotti che risolvono problemi delle persone e dell'ambiente attraverso processi che li rispettino». Eppure dietro alla semplicità con cui parla Vincent Stanley, philosophy director di Patagonia - intervistato dal Sole-24 Ore in occasione della sua “lectio” a Parma in occasione della Customer week del gruppo farmaceutico Chiesi - ci sono 50 anni di scalata controcorrente che hanno portato il marchio californiano e la sua “ossessione” per il pianeta e l'etica a essere deriso e snobbato, prima di diventare il modello antesignano cui improntare le strategie aziendali.

Vincent Stanley, è davanti a una platea di 800 collaboratori di Chiesi per raccontare che cosa significa essere un'azienda responsabile oggi, a dieci anni dal libro “The responsible company” che ha scritto con suo zio, il fondatore di Patagonia, Yvon Chouinard. Cosa è cambiato in questo decennio?

Loading...

Non è cambiato il modo di essere responsabile di un’azienda, significa oggi come allora realizzare i migliori prodotti sul mercato senza causare danni non necessari e sapendo che il proprio business ispira la comunità e può salvare il pianeta. È cambiata invece la consapevolezza di quanto è grave la crisi climatica, allora non lo si sapeva con tanta chiarezza. Questo sta accelerando i cambiamenti delle persone e dentro le aziende, perché oramai è evidente a tutti che un business che non si focalizzi sul lungo termine può anche generare profitti ma non può essere sostenibile.

E che cosa cambierà nei prossimi dieci anni?

Cambierà completamente il concetto di competitività. Io credo che si debba passare da un modello di shareholder primacy a uno di stakeholder capitalism, dove le strategie e le scelte tengono conto degli interessi di tutti, non solo degli azionisti, ma dei dipendenti, dei clienti, della collettività. Tutta la comunità di persone con cui lavora un imprenditore deve essere vista come alleato per raggiungere un obiettivo, che alla fine è per tutti quello di salvaguardare il nostro pianeta e la vita. E in questa direzione io credo che anche i concorrenti debbano iniziare a collaborare.

Crede che gli imprenditori italiani siano pronti a collaborare invece di competere?

Io credo che i giovani siano pronti e che ce lo stiano chiedendo. Quanto più velocemente cambieremo i modelli di business tanto più velocemente riusciremo a fermare la distruzione ambientale in corso. Non possiamo aspettare che il cambiamento parta dalle istituzioni, sono troppo lente. Sono le imprese con i loro fornitori, i loro collaboratori, i loro clienti a doversi muovere oggi. Ognuno di noi è responsabile di questo cambiamento.

Voi siete stati la prima BCorp della California, oggi c'è una vera e propria corsa alle BCorp: sta davvero cambiando l'imprenditoria o è la rincorsa ai claim imposti dal mercato?

Si sta costruendo un movimento di imprese, e oggi sono tante, che hanno il “purpose” (lo scopo, ndr) e non più solo il “profit” come obiettivo della loro attività e questo è un fatto positivo. Dieci anni fa eravamo in pochissimi, oggi abbiamo tanti compagni di viaggio e facciamo più rumore: il cambiamento arriva sempre dal basso.

Come si diventa “direttore della filosofia” di un'azienda?

Ho iniziato a lavorare in Patagonia che avevo 20 anni, ero tra i primi dipendenti e pensavo sarebbe stata un’esperienza di qualche mese e invece sono ancora qui, dopo 50 anni, a diffondere la filosofia Patagonia, che è la stessa con cui è nata nel 1973. Mio zio Yvon, uno scalatore, è partito costruendo poche attrezzature costose e di nicchia per gli amici alpinisti, l'impegno per l'ambiente e la natura era scritto già nei primi passi dell'attività, la direzione non è cambiata passando all'abbigliamento sportivo. Le scelte di convertirsi al cotone organico, di tagliare la chimica, di rammendare e riciclare i capi sono la naturale conseguenza. L’etichetta di “direttore della filosofia” può suonare in effetti un po' pretenzioso, ma parlando con un amico filologo fu lui a dirmi che era il nome giusto per il mio ruolo di ambasciatore del pensiero aziendale.

L’azienda non ufficializza i dati di fatturato, eppure la trasparenza sui numeri sarebbe il modo migliore per convincere gli imprenditori che essere ambientalisti porta profitto, o no?

Non siano tenuti a pubblicare gli indicatori del bilancio, ma forniamo tutti i dati sul nostro impatto ambientale, ho iniziato a pubblicare “The Footprint Chronicles” nel 2007, quando nessun’altra azienda lo faceva. Il fatto che siamo ancora qui, oggi, a festeggiare i 50 anni dalla fondazione di Patagonia, credo parli più di tanti numeri.

Oltre agli sforzi sull'agricoltura rigenerativa e la naturalità di materiali e processi avete anche imposto a tutta la filiera di fornitura di trattare dignitosamente i lavoratori, dal Sudamerica all'India: si riesce a restare competitivi sul mercato?

Non conosciamo altro modo per stare sul mercato, noi lavoriamo per salvare la nostra casa, l'ambiente, senza creare danno a nessuno. È un processo lungo e faticoso e che si costruisce nel tempo e non è finito. Siamo stati tra i primi ad aderire alle organizzazioni di Fair Trade per garantire che tutti abbiano un salario di sussistenza dignitoso, ancora molto c'è da fare. Noi oggi abbiamo 3mila dipendenti, ma vanno moltiplicati per tre o per quattro nella catena di fornitura. Non abbiamo parametri che garantiscano una proporzionalità tra i salari degli operai e gli stipendi dei top manager, ma non siamo certo famosi nel settore per strapagare i nostri collaboratori. Chi lavora con noi sa però che non viene a fare un mestiere qualsiasi, entra in una comunità ed è responsabile in prima persona della filosofia Patagonia, del proprio benessere e di quello del prossimo.

E-commerce e piattaforme online sono imputabili di aver peggiorato consumismo, sprechi e forse anche inquinamento, alla faccia del chilometro zero che sta avanzando in settori come l'alimentare. Anche voi vendete online, non è una contraddizione?

Io penso che una cosa sia il fast fashion, la moda low cost usa e getta, che abbiamo sempre contrastato, con azioni clamorose. I prodotti devono essere fabbricati per essere di qualità e durare nel tempo, per essere sostenibili. Una giacca Patagonia dura anche 30 anni, io ne ho una che ha 45 anni ed è ancora indossabile. E vendendo online un prodotto di qualità a un cliente, si evita che sia lui a macinare chilometri inquinando alla ricerca del negozio e del capo giusto.

La moda italiana come se la cava in quanto a sostenibilità, secondo lei?

Il made in Italy è sinonimo di alta qualità e l'alta qualità ha in sé il concetto di sostenibilità, di lunga durata, di scambio dell'usato, di recupero, tutte attività che appartengono alla filosofia Patagonia. Quasi tutti i grandi marchi sono impegnati in progetti per ridurre il loro impatto ambientale, in Europa e in Usa. Nike sta lavorando bene sui materiali, ad esempio, anche se non ancora con un approccio olistico al tema responsabilità sociale e sostenibilità. E con la moda etica Stella McCartney sta facendo scuola nel fashion.

L’imprenditore di successo si misurava dalla Ferrari, lo yacht e il trust per blindare il patrimonio di famiglia. Yves Chouinard, dopo aver dato vita alla Fondazione 1% for the Planet, ha trasferito le azioni Patagonia a un trust che è vincolato a destinare la ricchezza aziendale a salvaguardare l’ambiente. Riuscirà a diffondere questo modello?

Penso che dobbiamo sognare, perché all'essere umano servono poche cose per vivere bene, per rispondere ai propri bisogni ed essere soddisfatto. Invece ci siamo riempiti negli ultimi decenni di troppe cose e di scarsa qualità che non sono affatto necessarie. Se iniziamo a sognare di vivere in un mondo più essenziale e più giusto e ognuno di noi traduce il sogno in azione e i singoli poi diventano comunità, il cambiamento diventerà un’onda capace di salvare il pianeta.

Riproduzione riservata ©

loading...

Loading...

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti