i nuovi record

Stati Uniti annegati nei debiti: quali i rischi per noi?

di Enrico Marro

(Afp)

3' di lettura

Fa un certo effetto sentirsi dire dalla banca centrale statunitense che gli americani oggi si ritrovano con più debiti del 2008, quando galleggiavano sui picchi della “bolla del credito” che di lì a poco avrebbe fatto collassare il sistema finanziario mondiale. Purtroppo però è la dura verità. La Federal Reserve di New York ha di recente annunciato un nuovo record storico per il debito privato statunitense: 12,7 trilioni di dollari (ovvero 12.700 miliardi). Una cifra enorme, pari a oltre cinque volte il nostro debito pubblico.

Il brutto è che oltreoceano dovunque ti giri trovi livelli di indebitamento a nuovi record. Prendiamo il debito universitario contratto per pagare i costosi atenei statunitensi: oggi torreggia a quota 1300 trilioni di dollari, più del doppio dei 611 miliardi di nove anni fa. A pagare questa montagna di soldi (che solo nel quarto trimestre dell’anno scorso è aumentata di 31 miliardi di dollari) sono 42,4 milioni di cittadini statunitensi, dicono i dati del Department of Education. Ma quel che fa più paura è la percentuale di default: ormai sono tremila al giorno, aumentati del 17% in un anno. Il che consegna ai prestiti universitari lo scettro delle insolvenze più numerose, secondo la Fed di New York, tanto da far temere la futura esplosione di una bolla per certi versi simile a quella dei famigerati mutui immobiliari d’antan.

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La marea dei debiti però continua ad alzarsi anche su altri fronti: per esempio le carte di credito, dove siamo oltre il trilione di dollari, o i mutui immobiliari. Senza dimenticare il settore auto (a 1,1 trilioni di dollari), dove i finanziamenti sono stati concessi anche a profili “subprime” con l’inevitabile sequenza di default che ne è seguita. Poi naturalmente ci sono il debito governativo federale e quello dei singoli Stati.

Quanto alle imprese, «rispetto al 2010 hanno 7,8 trilioni di dollari di debito in più - sottolinea l’economista Dambisa Moyo, membro tra l’altro dei cda di Barclays Bank, Chevron e Barrick Gold - e la loro abilità di pagare gli interessi è ai minimi dal 2008 secondo un report di aprile del Fondo monetario internazionale». Si stima così che negli Stati Uniti il debito complessivo - pubblico e privato - tocchi ormai il 350% del Pil: già di per sé uno stock enorme, ma che se non si cambia rotta è destinato quasi a raddoppiare in trent’anni, secondo il Congressional Budget Office.

Il debito statunitense del resto è in aumento quasi costante dalla fine della seconda guerra mondiale, con interruzioni solo temporanee. La più recente si è verificata durante la crisi finanziaria mondiale: dalla fine del 2008 per quasi cinque anni abbiamo assistito a una riduzione del debito privato. Ma è durata poco. Già dal 2013 la marea ha ricominciato a salire, riuscendo nell’impresa di toccare nuovi massimi in appena quattro anni, spinta anche da tassi ai minimi storici e dalle eccezionali politiche monetarie della banca centrale.

Ora il dubbio è: il forsennato indebitamento degli americani è un segno di ottimismo? Non secondo Heather Boushey, capoeconomista del Washington Center for Equitable Growth, che spiega come in realtà «il debito aiuti le famiglie a pagare cose che non potrebbero acquistare con i loro stipendi». Del resto gli stessi dati macro confermano come la dinamica salariale statunitense resti debole, in particolare per i lavori poco qualificati, pur in presenza di una robusta occupazione.

Naturalmente la marea di debito statunitense resta sotto controllo. Però aggiunge fragilità al quadro economico mondiale, come ha di recente sottolineato anche il colosso del risparmio gestito Pimco (dando per probabile una recessione entro il 2022). Anche perché non si tratta solo degli Stati Uniti: in tutto il mondo - con qualche significativa eccezione - il debito è un mostro sempre più difficile da addomesticare. In particolare quello dei Paesi emergenti, denominato in valuta estera, preoccupa non poco: vale 15 trilioni di dollari e continua a crescere. Non sono buone notizie per un’Italia che, a sua volta, non riesce a imboccare un percorso decisivo di riduzione del debito pubblico.

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