corte d’assise di palermo

Stato-Mafia: condannati Mori e Dell’Utri, assolto Mancino

di Roberto Galullo

Mafia: morto Riina, boss che fece guerra allo Stato

10' di lettura

La Corte di Assise di Palermo ha condannato a pene comprese tra 8 e 28 anni di carcere per la cosiddetta trattativa Stato-Mafia gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l'ex senatore Marcello Dell'Utri, Massimo Ciancimino e i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà. Assolto dall'accusa di falsa testimonianza l'ex ministro democristiano Nicola Mancino. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca.

Non ci sono voluti neppure cinque giorni per il verdetto. Cinque anni dopo il rinvio a giudizio la Corte di assise di Palermo, che si era ritirata in camera di consiglio lunedì con il presidente Alfredo Montalto, il giudice a latere Stefania Brambille e i sette giudici popolari, hanno giudicato nel nome del popolo italiano. Termina così la loro “reclusione” nell'aula bunker del carcere palermitano Pagliarelli.

Nove, dopo la morte del capomafia Totò Riina, gli imputati: gli ex vertici del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l'ex senatore di Fi Marcello Dell'Utri, i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, il pentito Giovanni Brusca, tutti accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato , aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra. Sotto accusa anche l'ex ministro dc Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza e Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso Vito, che rispondeva di concorso in associazione mafiosa e calunnia dell'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro.

Il processo aveva al centro la (presunta) trattativa avviata da pezzi delle istituzioni, tramite il Ros, per indurre Cosa nostra a far cessare le stragi in cambio di concessioni e alleggerimenti nel contrasto ai clan.
I pubblici ministeri Vittorio Teresi, Antonio Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene non avevano alcun dubbio: a cavallo della stragi del '92 ci fu un patto scellerato fra i boss e rappresentati delle istituzioni per far terminare quella scia di sangue e alleggerire i voncoli (anche) carcerari per boss e mezzi boss.

Questa sentenza, di fatto, giunta dopo oltre 200 udienze, sembra ribaltare quanto finora già fissato in un'aula giudiziaria. Due i precedenti che hanno aperto il varco: uno, molto giudiziariamente molto lungo, ha riguardato gli ex ufficiali dell'Arma Mario Mori e Mauro Obinu; l'altro ha visto coinvolto l'ex ministro Calogero Mannino, assolto nel processo stralcio (ma è in corso l'appello).

Il lungo iter di Mori e Obinu
Il 19 maggio 2016, nel processo in secondo grado contro gli ufficiali Mori e Obinu, dopo poco più di tre giorni di camera di consiglio la Corte d'appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale (a latere Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco), aveva confermato la sentenza di assoluzione emessa in primo grado il 17 luglio 2013, nei confronti dei due imputati, accusati di favoreggiamento del boss Bernardo Provenzano. La Procura generale di Palermo, rappresentata in giudizio dal procuratore Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio, aveva chiesto la condanna dei due ufficiali a quattro anni e mezzo di reclusione per Mori e tre anni e mezzo per Obinu.

Secondo l'accusa, il 31 ottobre ‘95, pur essendo a un passo dalla cattura del padrino di Corleone, grazie alle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo, i due non fecero scattare il blitz che avrebbe potuto portare all'arresto del capo mafia garantendogli un'impunità che sarebbe durata fino al 2006. La Corte d'Appello, però, ha confermato in pieno l'assoluzione con la formula «perché non costituisce reato». Le motivazioni si conobbero il 15 novembre 2016. La Corte però, pur criticando per alcuni versi l'operato dei due imputati, confermò «le risultanze processuali sono inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa». Secondo i giudici di appello «la sua ricostruzione in termini probabilistici, essendo al contrario necessario acquisire la prova rigorosa dei motivi della condotta illecita. Dunque, nel caso in esame la mancata acquisizione di una siffatta prova rigorosa non consente di ritenere accertata l'esistenza del movente originariamente ipotizzato dalla pubblica accusa».
L'8 giugno 2017 la Cassazione stabilì definitivamente che non ci fu alcun mancato blitz e nessun protesse la latitanza del boss Provenzano

Il processo a Mannino
Il 4 novembre 2015 il Gip di Palermo Marina Pitruzzella, dopo un processo durato circa tre anni in rito abbreviato, assolse l'ex ministro Mannino dall'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato nello stralcio del processo principale. Il 15 dicembre 2016 la Procura di Palermo fece appello e le motivazioni di quella assoluzioni furono depositate solo a novembre 2016.
Il 18 aprile di quest'anno a Palermo si è svolta l'ennesima udienza. In una lunga ordinanza i giudici hanno disposto la citazione a deporre di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso Vito e superteste dell'inchiesta su presunti accordi tra Stato e mafia negli anni delle stragi, della giornalista Sandra Amurri, dell'ex presidente della Camera Luciano Violante, del pentito Giovanni Brusca, uno dei fedelissimi del boss Totò Riina, di Pino Lipari che, pur non avendo lo status di collaboratore di giustizia, ha reso alcune dichiarazioni agli inquirenti, e di Nicola Cristella, ex capo scorta del vice capo del Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) negli anni delle stragi Francesco Di Maggio.

Il processo chiuso oggi
Tanto il processo al quale la Cassazione ha messo una pietra tombale, quanto quello all'ex ministro agrigentino, sono legati a doppio filo al processo appena chiuso in primo grado a Palermo. L'indagine è approda alla fase processuale nel luglio del 2012 quando 120 faldoni vennero trasmessi dalla Procura al giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini. Il rinvio a giudizio dei dieci imputati fu deciso il 7 marzo 2013. Al termine della requisitoria i pm Nino Di Matteo (oggi in Dna), Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia hanno presentato alla corte le richieste di pena. In particolare, per il reato contestato con l'art.338 (minaccia e violenza a Corpo politico dello Stato) è stata richiesta la condanna a sedici anni per il boss Leoluca Bagarella, cognato del padrino corleonese Totò Riina e a 12 anni per Antonino Cinà, medico e intimo dello stesso Riina.

Per lo stesso reato è stato chiesto il «non doversi procedere» per intervenuta prescrizione a Giovanni Brusca mentre sono state chieste le condanne per l'ex capo del Ros Antonio Subranni (12 anni), il suo vice del tempo Mario Mori (15 anni) e l'allora capitano Giuseppe De Donno (12 anni). Di minaccia a Corpo politico dello Stato era anche accusato Marcello Dell'Utri, ex senatore di Forza Italia che sta scontando una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Per lui i pm hanno chiesto la condanna a 12 anni. L'accusa ha anche chiesto la condanna a 6 anni per l'ex ministro Nicola Mancino che rispondeva del reato di falsa testimonianza. Inoltre l'accusa ha chiesto la condanna a 5 anni per il reato di calunnia nei confronti di Massimo Ciancimino mentre ha chiesto di dichiararsi il «non doversi procedere per intervenuta prescrizione» per il reato di concorso in associazione mafiosa in quanto «ritenuto conclusosi in data 15 gennaio 1993». Infine è stato dichiarato il «non doversi procedere» nei confronti del capomafia Totò Riina (defunto). Ovviamente le difese avevano chiesto l'assoluzione dei vari imputati.

La tesi dell'accusa era che, dopo l'esito negativo del maxi processo e l'omicidio dell'eurodeputato della Dc Salvo Lima, Mannino aveva capito che sarebbe stata la successiva vittima di mafia. Secondo gli inquirenti, Mannino, grazie ai suoi rapporti con il vertice del Ros all'epoca guidato da Subranni, temendo per la propria vita, avrebbe caldeggiato l'avvio di un dialogo tra Carabinieri e Cosa nostra. Primo interlocutore delle istituzioni sarebbe stato Totò Riina contattato attraverso Vito Ciancimino. Poi il padrino sarebbe stato sostituito nei rapporti con il Ros dal capomafia Bernardo Provenzano.

A partire dal '91 lo Stato (all'epoca Claudio Martelli del Psi al ministero di Grazia e Giustizia e Giovanni Falcone al dipartimento degli Affari penali dello stesso ministero), cominciò la sua battaglia a Cosa nostra a colpi di leggi e codici.
A questa ricostruzione dell'accusa i legali degli imputati che hanno servito lo Stato hanno sempre risposto facendo avanti il rigore dei propri assistiti e il senso del dovere. Insomma, solo fantasie. La trattativa non è mai esistita. I carabinieri si mossero per tentare di stanare i boss grazie alla collaborazione di don Vito Ciancimino. Totò Riina e Bernardo Provenzano non sono forse stati arrestati? Già, Riina, l'uomo del “papello”, con le richieste per fermare le stragi. Poi, però, sarebbe stato venduto da Provenzano ai carabinieri.

Nel corso del processo
Nel corso del processo chiuso oggi in primo grado, è accaduto di tutto. Riina e Provenzano, i due capi di Cosa nostra corleonese, sono morti sottoposti al regime del carcere duro, la cui eliminazione era al centro del “papello”. Non è mancato il conflitto istituzionale per l'inutilizzabilità delle telefonate del presidente emerito Giorgio Napolitano (l'accusa sosteneva che fossero ininfluenti ma chiese la trascrizione tanto da rendere necessario l'intervento della Corte costituzionale che gli diede torto). Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, testimone chiave, è stato arrestato. Antonio Ingroia, padre putativo di questo processo, è entrato in politica.

Cosa accadrà ora?
Non è da escludere che il pool antimafia della Procura palermitana pensi di proporre ricorso e, da questo punto di vista, appare molto utile vedere il precedente del ricorso nel caso dell'assoluzione di Mannino (per il quale è in corso, come abbiamo letto, l'appello). Le motivazioni della sentenza , si legge nel ricorso che venne firmato anche dal capo della Procura di Palermo Francesco Lo Voi «sono estremamente lacunose, piuttosto confuse nella ricostruzione dei fatti, incongruenti, illogiche, contraddittorie e prive di argomenti di valutazione critica realmente collegati alle emergenze processuali prospettate dall'accusa (…)

(…) La sentenza impugnata, ad una prima analisi generale, appare percorsa da un singolare furore demolitorio, teso non soltanto alla analisi della posizione dell'imputato, delle sue condotte e del suo apporto causale nella determinazione dell'evento posto a base del capo di imputazione, ma sostanzialmente determinato a smantellare la ricostruzione dei fatti prospettati dall'accusa con argomentazioni spesso prive di reale motivazione e, perciò, apodittiche (…)

(…) La singolare durata di gestazione dell'elaborato (un anno circa dal giorno della lettura del dispositivo) poteva apparire giustificata dalla complessità determinata dalla necessità di enucleare la sola posizione processuale di Mannino dal contesto generale del processo originario, nel quale le posizioni degli imputati sono costruite nei capi di imputazione con una reciproca interdipendenza ed in stretta connessione. D'altro canto la semplice lettura del capo di imputazione a carico di Mannino, sopra riportato, dà immediatamente conto del legame appena indicato. Ma, invero, le aspettative maturate durante la lunga attesa sono state tradite da una motivazione che è risultata estremamente lacunosa, piuttosto confusa nella ricostruzione dei fatti e priva di argomenti di valutazione critica realmente collegati alle emergenze processuali prospettate dall'accusa (…).

(…) La prima, macroscopica, incongruenza si coglie nella palese contraddizione logica tra la motivazione e la formula assolutoria prescelta. formula che evidentemente postula il convincimento, da parte del giudicante, che, pur in presenza del “fatto di reato” così come contestato, è risultata incompleta la prova del consapevole contributo causale del singolo imputato alla realizzazione di quello stesso fatto (…).

(…) La sentenza, di circa cinquecento pagine totali, si riduce – qualora se ne individuino le sole parti effettivamente valutative – a poco più di venti pagine. Tutto il resto della sentenza si esaurisce in una asettica trascrizione di altre sentenze emesse da altre autorità giudiziarie di verbali integrali di interrogatorio di (soltanto alcuni) collaboratori di giustizia, dell'intera trascrizione della requisitoria del Pm, che il Giudice spesso riporta senza alcun tipo di valutazione critica (ovvero limitandosi, come si vedrà, a considerazioni «estemporanee» e sganciate da ogni riferimento critico concreto). La sentenza, in altri termini, è sistematicamente e completamente permeata del vizio della motivazione apparente (…).

(…) Si osserva ancora, quale considerazione generale, che il problema della “motivazione apparente”, è destinato ad accentuarsi se si considera che quei pochi e scarni passaggi realmente valutativi di cui si è appena detto concernono, come si vedrà, soprattutto le contestazioni riferibili ad altri imputati ovvero la generale sussistenza del reato contestato, mentre quelli concernenti la specifica contestazione nei confronti di Mannino si riducono davvero a pochissime righe, peraltro di mera ed arida elencazione dei temi di prova offerti e reputati non idonei.

Questo dato determina una evidente ed insuperabile contraddittorietà ed illogicità intrinseca della pronuncia stessa, posto che si pone in insanabile contrasto con la formula assolutoria scelta dal giudice nel suo dispositivo. Se il giudice ha scelto di assolvere non “perché il fatto non sussiste”, ma perché l'imputato “non lo ha commesso”, la motivazione della sentenza sarebbe dovuta essere fondata (se non esclusivamente, almeno) in via del tutto prevalente sull'analisi del materiale probatorio concernente lo specifico contributo concorsuale contestato a Mannino, lasciando invece in secondo piano (in virtù della gerarchia delle formule assolutorie) ogni valutazione sulla sussistenza del fatto e, a maggior ragione, sulla responsabilità di altri imputati non sottoposti al giudizio abbreviato.

È questo, tuttavia, l'esatto e lampante contrario di quanto è avvenuto con la sentenza che si appella. Dal punto di vista metodologico, la sentenza è costruita in modo piuttosto confuso, perché le argomentazioni che vengono poste di volta in volta in confutazione dal Giudice appaiono affrontate senza un preciso ordine di trattazione ma episodicamente, al punto che lo stesso estensore è costretto a ripetere, anche più volte, i medesimi argomenti e la stessa ricostruzione di molti dei fatti rappresentati dall'accusa, offrendo di volta in volta le proprie valutazioni in modo estremamente sintetico ed apodittico.

La semplice lettura dell'indice della sentenza impugnata dà conto di quanto sopra; così come la constatazione dello sbilanciamento tra la parte descrittiva dei fatti (costituita esclusivamente nella pedissequa trascrizione di verbali di interrogatori, di ampi brani di sentenze pronunciate da altre autorità giudiziarie e della requisitoria del Pm) e la parte valutativa di tali emergenze: tutto ciò denota la gravissima lacuna denunciata in premessa, e cioè la sostanziale mancanza di una motivazione congrua e comprensibile che attraversa tutto l'elaborato del Giudice. A conferma delle critiche sopra riportate si illustreranno le principali argomentazioni utilizzate dal decidente per addivenire alla pronuncia assolutoria, al preciso scopo di evidenziarne la inconcludenza e la erroneità.

In conclusione, si è ritenuto di passare in rassegna le principali criticità rilevate in sentenza al fine di dimostrare che l'elaborato del Giudice di primo grado non sia stato in grado di dimostrare, mediante un percorso motivazionale logico, consequenziale e coerente, per quali ragioni l'imputato sia stato assolto dalla imputazione ascrittagli con la formula più volte citata. Si ritiene che una analisi attenta e completa degli elementi di prova addotti dalla pubblica accusa avrebbe invece dovuto portare alla pronuncia di condanna di Calogero Mannino in ordine alla contestazione mossa; la grave sottovalutazione di taluni (numerosi) fatti significativi, la totale assenza di valutazione di altri fatti, la lettura e la valutazione armonica di tutti questi elementi di prova, avrebbero imposto una conclusione diversa del presente processo».

Al fine di dare prova compiuta del modo affrettato con cui il primo giudice ha liquidato le vicende inerenti al ruolo dell'imputato nella stagione precedente e successiva alle stragi del ‘92/93, i pm riportano «per intero le conclusioni adottate dal pubblico ministero nel corso della requisitoria finale del giudizio abbreviato, così da consentire al Giudice del gravame di apprezzare per intero le numerose lacune lamentate e di addivenire alla riforma della sentenza impugnata».

r.galullo@ilsole24ore.com

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