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The Bear 2: la seconda stagione della serie cult è un successo, ma non senza difetti

Serie tivù

di Gianluigi Rossini

 Carmy (Jeremy Allen White)

3' di lettura

È sempre imbarazzante trovarsi nella posizione di non riuscire ad apprezzare una serie che ha ricevuto lodi smodate davvero da tutti, almeno a leggere le recensioni americane e nostrane, da «The Atlantic» all’ultimo dei blog. Ripenso agli sguardi di compatimento che ho riservato a chi mi diceva di non vedere i meriti di Succession e vi chiedo scusa, fratelli e sorelle, ora capisco.

La seconda stagione di The Bear (su Disney+) è, senza dubbio, un prodotto di altissimo livello. Lo status culturale raggiunto con la prima, ottima, stagione è visibile nel numero e nella qualità delle guest star: sfilano tra gli altri Jamie Lee Curtis , Bob Odenkirk, Olivia Colman, Gillian Jacobs, Sarah Paulson, con brevi comparsate o veri e propri personaggi secondari.

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Si riprende da dove avevamo lasciato: i 300mila dollari incomprensibilmente nascosti nei barattoli di pomodoro vengono investiti nella ristrutturazione del locale e, senza perdere molto tempo a spiegare la logica dei vari passaggi, altri soldi devono essere presi in prestito. Mentre i lavori vanno avanti, con mille intoppi e fallimenti, Carmy (Jeremy Allen White) e Sydney (Ayo Edebiri) studiano il nuovo menu, regalando momenti di sempre gradita pornografia culinaria arricchita da dialoghi, commenti e una drammaturgia che lavora sull’associazione simbolica tra i piatti creati e le dinamiche psicologiche dei personaggi. Sydney è ormai protagonista a pieno titolo, accumula un minutaggio forse perfino maggiore dello stesso Carmy. L’amicizia tra i due, che per fortuna esclude ogni sviluppo romantico, è di nuovo una delle cose migliori: tra devozione e momenti di sfiducia, gelosia e dialoghi a cuore aperto.

Le serratissime sequenze ansiogene che hanno fatto la fortuna della prima stagione sono sempre presenti: allarmi, timer, sveglie e telefoni suonano ininterrottamente facendo da sfondo a moltissime scene; di nuovo il disastro è costantemente dietro l’angolo. Stavolta però ci si prende anche un po’ di tempo per respirare: possiamo seguire Sydney che vaga tra i ristoranti di Chicago con un quaderno alla mano, in cerca di ispirazione per il menu; oppure Marcus (Lionel Boyce), a cui viene concesso un intero episodio e un viaggio studio a Copenhagen per perfezionarsi nell’arte del dessert, in un ristorante che è chiaramente il Noma anche se nessuno lo dice esplicitamente. Tutti i personaggi secondari hanno spazio per crescere ed espandersi, trasmettendo così un senso di maggiore coralità.

Eppure, eppure (da qui in poi sono costretto a fare alcuni spoiler, siete avvertiti): forse il cinismo in me sta avendo la meglio, ma la psicologia di questi personaggi segue uno schematismo ottimista degno di una sceneggiatura dell’ Aaron Sorkin anni ’90: Richie (Ebon Moss-Bachrach), per esempio, nel giro di una settimana si trasforma in una persona completamente diversa, improvvisamente in grado di apprezzare la bellezza del servire gli altri; Tina (Liza Colón-Zayas), anche lei mandata a studiare a spese dell’indebitatissimo ristorante, veleggia a due metri da terra con lo sguardo pieno di gratitudine e voglia di imparare; la new entry Claire (Molly Gordon), amica di vecchia data con cui Carmy intraprende una relazione, personaggio privo di qualsiasi interesse, brava ragazza della porta accanto il cui bel viso sorridente è oggetto di numerosi interminabili primi piani sognanti.

Anche la struttura narrativa, in troppe istanze, è terribilmente schematica: conti alla rovescia dentro altri conti alla rovescia, un meccanismo di creazione della suspense ovviamente legittimo ma che, ripetuto più e più volte, perde completamente di significato. Stessa cosa per il montaggio ansiogeno: dopo un certo numero di ripetizioni diventa un puro manierismo, privo di effetti emotivi.

Nell’episodio della cena di Natale in famiglia, ad esempio, nonostante la splendida performance di Jamie Lee Curtis, la cucina viene rappresentata come fabbrica di traumi in una logica narrativa tanto lampante quanto artificiosa nel risultato.

Al di là di una mia personale antipatia per la trasformazione dello storico, sudicio, rinomato paninaro di quartiere nell'ennesimo ristorante gourmet che aspira alla stella Michelin ed è costretto ad alzare i prezzi, il fatto è che ogni discussione sulla gentrificazione è del tutto esclusa, e per quanto il tema fondamentale sia il conflitto tra il seguire una vocazione e il vivere una vita piena e felice, di fondo si propugna un'etica perfezionista dell'iperlavoro a tutti i costi priva di veri contrappesi, che suona tanto più falsa e contraddittoria se si pensa allo sciopero degli sceneggiatori in corso proprio in questo momento.

Christopher Storer

The Bear 2

Disney +

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