Stefano Raimondi presenta il suo percorso curatoriale a miart
di Maria Adelaide Marchesoni
3' di lettura
Fino a che punto la pratica curatoriale può spingersi in un contesto fieristico? Forse non ci sono limiti e anche quest'anno il miart ha confermato un percorso di crescita costante che va di pari passo allo sviluppo artistico e culturale nel campo dell'arte contemporanea che ha attraversato Milano negli ultimi anni. In un contesto sempre più qualitativamente elevato ArteEconomy24 ha chiesto a Stefano Raimondi, direttore di The Blank Contemporary Art , network che coordina le iniziative tra pubblico e privato per promuovere e valorizzare l'arte contemporanea, di realizzare una mostra immaginaria con le proposte artistiche presenti in fiera. «La fiera, diretta da Alessandro Rabottini, - afferma Stefano Raimondi - ha presentato gallerie e stand di alta qualità, ricercati, chiari e con una proposta artistica capace di offrire diversi spunti e riflessioni. All'interno di un contesto così ricco la possibilità di individuare delle traiettorie di pensiero e dei lavori che potessero essere assemblati in un'immaginaria collettiva, capace di unire le diverse anime e sezioni della fiera, erano molte, pressoché illimitate. Linguaggio, identità, peso, conflitti, ci si poteva davvero sbizzarrire».
Ecco il percorso curatoriale raccontato da Stefano Raimondi.
“La mostra che farei si chiamerebbe senza dubbio “Il corpo insensato” ben consapevole che il corpo è sempre stato al centro dell'arte e della sua storia e in quanto tale ultra studiato, iperfagocitato e ovviamente sovra-presentato. In un certo senso non esiste mostra che non nasca da un corpo. Attraversiamo un'epoca in cui dovremmo velocemente capire e rispondere al senso di un corpo privo di senso e di sensi, devitalizzato, dislocato, inutilizzato, sottratto, preso in ostaggio e osteggiato. Che il corpo classico e tradizionale fosse ormai superato ce lo ricorda modo esplicito il lavoro di Jon Thompson, «The cruelty of classic canon» ( Anthony Reynolds , Londra). E da qui possiamo attingere a piene mani nello stand monografico di Paul McCarthy da Hauser & Wirth , scegliendo per esempio la grande scultura «Cut Up B», 2015-2017 in cui l'artista ha modellato il suo corpo partendo da una scansione 3D, aprendosi a una fantasia della forma che si concretizza in una figura straniante a metà tra la statuaria classica e un personaggio horror. In modo analogo ma formalmente opposto anche Nairy Baghramian guarda alla statuaria tradizionale, al rapporto tra industriale e artigianale, ma le sue protesi scultoree si trovano sempre in equilibrio precario e instabile, pronte a collassare («Dwindler_Hazy Blue», 2018, Marian Goodman ). Quello che ci troviamo davanti è un corpo messo a dura prova, spinto al limite, esausto ed esaurito come nell'opera di Vito Acconc i, «Hand and Mouth» (1970, Osart Gallery ), di Gina Pane, «Action Psyché (essai)» 1974 (da Osart Gallery ) e di Anna Maria Maiolino con «De: Para: 1974/2016» ( Raffaella Cortese ). Il corpo rimane solo, alla presa con la sua memoria bubbosa come in «Bumpman on a tree trunk», 2018 di Paloma Varga Weisz, ( Gladstone ), con un rimosso frammentato come in «Ritratto d'uomo. Sempre raccontava solo ciò che dimenticava», 1972 di Vincenzo Agnetti (da Mazzoleni ) o la gravità insostenibile di Antony Gormley, con «Open Brace», 2017, ( Galleria Continua ).
Un corpo che si fa altro da sé, corpo sopra corpo o corpo dentro corpo come nella fotografia «Sylvester», 2018 di Tina Lechner (da Hubert Winter ) o nel dispositivo pittorico di Oscar Giaconia, «The Kitbasher», 2019 (da Thomas Brambilla ) parte di una serie di lavori che nascono dalla messa in atto di una sessione di trucco che l'artista ha realizzato con il truccatore Vittorio Sodano. Presenze antropomorfe che hanno smesso di essere umane, c'è da incrociare le dita che tutto vada per il verso giusto di Michael Dean, «shore sake (Working Title)», 2017 (da Andrew Kreps ) e che l’uomo ritrovi un equilibrio sul pianeta”.
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