Da lunedì 28 giugno

Stop mascherine all’aperto: cosa resta di 15 mesi tra liti sui prezzi e indagini su Arcuri

La pandemia di Covid ci ha reso famigliari con quello che ritenevamo un dispositivo di nicchia. Come siamo arrivati alla fine dell’obbligo all’aperto dal 28 giugno

Covid-19, stop mascherine all'aperto: il parere dei cittadini

7' di lettura

Oggi si comprano ovunque, dalle casse dei supermercati alle bancarelle per strada. Eppure basta tornare indietro di un anno, qualche mese e diversi decreti per ricordarsi di quando bisognava vagare per farmacie o fare scorta online. Si sta parlando delle mascherine, i «dispositivi di protezione delle vie respiratorie» diventati indispensabili nei mesi della pandemia di Covid-19. Dal 28 giugno cade l’obbligo di indossarla all’aperto, uno dei passi simbolici verso il ritorno alla normalità scandito dalle aperture a scaglioni del governo Draghi. Ma anche l’ultima tappa, per ora, di un ciclo che ha visto un accessorio di nicchia trasformarsi, variamente, in un bene raro, oggetto di scontro scientifico e politico. Riavvolgiamo il nastro.

Mascherina sì, mascherina no: la cronologia degli obblighi

Marzo 2020. L’ascesa improvvisa di casi di Covid costringe il governo italiano a correre ai ripari, imponendo una serie di strette che ci condurranno verso una misura inedita: il confinamento, o lockdown, prima sfumato in inviti più generici (le campagne dello «State a casa») e poi imposto per legge con il primo di una lunga serie di decreti del presidente del Consiglio dei ministri. È qui che inizia a comparire per la prima volta l’obbligo di indossare una mascherina, anche se in maniera selettiva: per esempio nel Dpcm del 4 marzo 2020 dell’allora governo Conte, poi “confluito” in quello dell’8 marzo, se ne impone l’utilizzo a chi ha manifestato dei sintomi.

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Il 4 aprile l’obbligo si estende a chiunque acceda a esercizi commerciali di prodotti alimentari, il 7 viene fissato il vincolo più generico di «coprire naso e bocca» quando si utilizzano mezzi di trasporto, il 14 la mascherina diventa tassativa «a chiunque si rechi fuori dell’abitazione». Da lì inizierà un periodo più o meno costante di utilizzo, inframezzato dalla distensione estiva. Il 15 luglio l’obbligo viene limitato agli spazi interni, ma l’ascesa dei casi in autunno fa scattare una nuova stretta: il decreto 125 del 7 ottobre sancisce l’obbligo di utilizzo anche all’aperto e rimarrà in vigore fino alla data fatidica del 28 giugno 2021.

«Non servono a nulla». Le divisioni degli esperti...

Nei mesi, sia l’utilizzo che la disponibilità di mascherine sono diventate un dato di fatto. Ma il processo non è stato così immediato, né in un senso né nell’altro. In un primo momento si sono seminati dei dubbi sull’utilità stessa della protezione, giudicata eccessiva o del tutto superflua per le persone in salute. A essere ricordate sono soprattutto le dichiarazioni del consulente del ministero della Sanità Walter Ricciardi («Le mascherine per le persone sane non servono a niente», risalente al 25 febbraio) e dell’allora presidente della Protezione Civile Angelo Borrelli («Oggi non è necessario, per chi riesce a mantenere le distanze e a rispettare le indicazioni che sono state date, utilizzare le mascherine», risalente al 3 aprile).

Lette a ritroso possono sembrare infelici, ma si trattava di posizioni coerenti con la penuria di dati disponibili in quel periodo e le spaccature in seno alla comunità scientifica internazionale. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha mantenuto una linea scettica nei primi mesi di pandemia, dichiarando tra l’altro che non si poteva «provare scientificamente» il ruolo preventivo delle mascherine su persone sane. Solo a giugno 2020 è arrivato, formalmente, l’invito a «incoraggiare il pubblico generale a indossare la mascherina dove c’è una trasmissione diffusa (del virus, ndr) e la distanza fisica è difficile, come sui mezzi pubblici, nei negozi o in altri ambienti confinati o affollati».

Nelle battute iniziali del Covid le «mascherine» più conosciute erano le cosiddette chirurgiche, un modello familiare anche prima dell’emergenza sanitaria. La pandemia ha reso note le varie categorie, con i rispettivi gradi di efficacia rispetto al rischio di contagio: i «dispositivi medici» come le stesse mascherine chirurgiche, con una capacità filtrante bassa per chi la indossa (20%) ed elevata verso l’esterno (fino al 95%); i dispositivi di protezione individuale, le ormai celebri FFP1 (capaci di filtrare l’80% delle particelle nell’aria), FFP2 (94%) e FFP3 (99%); le mascherine di comunità, quelle che vengono abitualmente chiamate mascherine di stoffa. La loro capacità filtrante varia, ma non sono state sottoposte a valutazione né dall’Istituto superiore di sanità né dall’Inail.

...e la nascita dei «no mask»

Al dibattito nella comunità scientifica se ne è accompagnato uno in politica, anche se via via sempre più confinato nelle sue frange estreme. La raccomandazione e, soprattutto, l’obbligo di mascherina hanno ispirato la nascita dei cosiddetti no-mask: cittadini ostili all’uso della mascherina, ritenuta come uno dei simboli della «dittatura sanitaria» che si sarebbe creata con la pandemia di Covid. Il fenomeno si interseca soprattutto con gli ambienti dei cosiddetti «negazionisti» della pandemia, persuasi che il Covid non esista, ma ha trovato qualche sponda in ambienti della destra o si è intrecciato con le proteste, più generiche, contro le restrizioni fissate per prevenire i contagi. Oggi il dibattito si è spostato sulla questione vaccinale, sempre nella prospettiva di contestare l’eventuale obbligo di sottoporsi alla somministrazione.

Il caos in Italia, dalle liti sui prezzi alle indagini su Arcuri

Mentre gli scienziati discutevano sull’efficacia delle mascherine, in Italia si era già passati al problema successivo: l’assenza dei dispositivi, diventati introvabili o venduti a prezzi maggiorati. Già a fine gennaio 2020 l’allarme coronavirus aveva innescato un cortocircuito fra l’improvviso exploit di domanda e le disponibilità effettive delle mascherine, con il caso di aziende costrette a intensificare massicciamente la produzione per restare al passo con le richieste. Sempre l’allora numero uno della Protezione Civile, Borrelli, aveva stimato a marzo 2020 un fabbisogno di 90 milioni di mascherine al mese. Una cifra persino prudente, rispetto ai volumi registrati nei mesi successivi.

Il caos vero è esploso con la cosiddetta fase 2 del 2020, quella delle riaperture, in un incrocio di carenza di prodotti, dubbi sulle certificazioni e rimpalli di responsabilità che ha visto fra i suoi protagonisti l’allora Commissario straordinario all’emergenza, Domenico Arcuri. Nell’ordine. Il 4 maggio dell’anno scorso inizia appunto la «fase 2», il periodo che sancisce l’uscita progressiva dal lockdown con varie riaperture e una ritrovata libertà di circolazione. Una fra le condizioni per il ritorno alla normalità sono le mascherine, da indossare obbligatoriamente per ridurre i rischi di contagio. Arcuri propone di calmierare il prezzo dei dispositivi a un massimo di 50 centesimi, 61 centesimi includendo l’Iva, con l’obiettivo di rendere il prodotto più accessibile ed evitare speculazioni sui privati. In un secondo momento, sempre secondo i piani, si sarebbe arrivati anche ai 50 centesimi netti, rimuovendo l’imposta al 22% che grava sulle mascherine.

I presupposti sono incoraggianti, visto che Arcuri annuncia a inizio maggio un accordo con 100mila punti vendite fra farmacie e parafarmacie, grande distribuzione e tabaccai. I risultati meno: le mascherine «di Stato» a 50 centesimi si esauriscono subito e diventano introvabili in farmacie e parafarmacie, scatenando un botta e riposta fra lo stesso Arcuri e i distributori. L’ex Commissario all’emergenza sostiene che la carenza di mascherine vada imputata soprattutto alle associazioni di categoria (Federfarma Servizi e Associazione distributori farmaceutici), colpevoli di non essersi rifornite a sufficienza di dispositivi.

Le associazioni replicano che sarebbe spettato ad Arcuri garantire i quantitativi necessari di mascherine, oltre a contestare la scelta stessa di fissare un tetto al prezzo: una strategia che avrebbe, secondo le associazioni, deviato gli esportatori internazionali su mercati con più margini di guadagno. Il motivo originario della penuria di dispositivi, in questa fase, si rivela essere la discrepanza fra la disponibilità di mascherine dichiarate dai farmacisti e quelle davvero spendibili sul mercato: su uno stock teorico di 12 milioni, un totale di 9 milioni di pezzi vengono bloccate perché importate dalla Cina senza certificazione europea.

Lo stallo si sbloccherà con un nuovo accordo fra le parti e l’entrata a regime di una produzione più imponente, in Italia e all’estero. Ma i problemi sono tutt’altro che esauriti e sconfinano, anche, in inchieste giudiziarie. Da un lato la corsa alla produzione di mascherine, con la riconversione ad hoc di aziende di altri settori, non garantisce sempre la qualità richiesta: un monitoraggio Inail rivela, a inizio maggio 2020, che appena il 4% delle mascherine processate era risultato conforme e utilizzabile sul mercato. Dall’altro, la penuria di dispositivi favorisce la nascita a tempo di record di un «mercato secondario» con prodotti inaffidabili, se non casi di frode o speculazioni illecite.

Scattano diversi sequestri o blocchi di stock di mascherine sprovviste della certificazione, in genere importate dall’estero e in particolare dalla Cina. A finire nel mirino degli inquirenti sarà anche lo stesso Arcuri, ormai sostituito nel suo ruolo dal generale Francesco Paolo Figliuolo. In una inchiesta della Procura di Roma su una commessa da 1,25 miliardi di euro con tre consorzi cinesi, destinata alla fornitura di circa 800 milioni di mascherine nel febbraio 2021, Arcuri viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di peculato. L’ex Commissario replica di «non saperne nulla».

E ora? Da risorsa a problema. Ecologico

Dopo il caos iniziale, con gli strascichi che si ripercuotono oggi, la disponibilità di mascherine è diventata una questione di routine. Ma si sta già profilando più di un interrogativo su quello che verrà dopo, su un versante finito in sordina nei primi mesi della pandemia: l’impatto ambientale di miliardi di dispositivi comprati e utilizzati tutti i giorni. Anche se si sono profilati modelli «bio» e riciclabili, il prodotto più diffuso restano le mascherine chirurgiche: usa e getta, destinate alla raccolta indifferenziata e quindi, di regola, a discariche, inceneritori o termovalorizzatori. Di che volumi si parla? L’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ha stimato solo per il 2020 un quantitativo di materiale che va da 160mila a 440mila tonnellate.

Su scala globale, alcuni report parlano di una media di 129 miliardi di mascherine utilizzate ogni mese. L’obbligo di indossarla all’esterno scadrà il 28 giugno, ma rimarrà intatto quello di averne sempre una a disposizione e tutto lascia intendere che l’addio completo ai dispositivi sarà tutt’altro che immediato. Anche perché la proliferazione delle varianti sta creando nuovi timori, forse con ricadute sul clima da «liberi tutti» che si era ampiamente inaugurato con il primo allentamento delle strette il 26 aprile 2021. L’utilizzo di nuove mascherine significherà appesantire il bilancio ambientale o, viceversa, rendere più urgente una strategia per smaltire gli enormi stock di dispositivi prodotti e «consumati» quotidianamente. Su questo fronte, il dopo-Covid è già iniziato.

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