Sudan, almeno 413 vittime e 3.551 feriti. Usa e Ue valutano evacuazione delle ambasciate
Violata la tregua, l’esercito schiera le truppe di guerra. Msf: è una catastrofe
di Alberto Magnani
I punti chiave
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In mattinata si era parlato di una tregua di tre giorni per la Id al-fitr, la festa che celebra la fine del Ramadan. È saltata in poche ore, come tutti i cessate il fuoco dichiarati finora e come rischia di fare anche l’ultimo annunciato dalle forze armate. Nessuno spiraglio di distensione dalla crisi del Sudan, lo scontro esploso il 15 aprile nella capitale Khartoum fra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare delle Rapid support forces.
L’ultimo bilancio dell’Organizzazione mondiale della sanità, diramato il 21 aprile, registra un totale di «almeno» 413 vittime e 3.551 feriti. Il ministero della Sanità sudanese alza la stima a 600 vittime, in un’escalation innescata dalla resa dei conti fra i due generali che avevano ordito il golpe del 2021: il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e leader de facto del paese e Mohamed Hamdan Dagalo, detto «Hemetti», guida delle Rsf e vice dello stesso al-Burhan nella giunta militare che ha interrotto il processo di «transizione democratica» avviato con la fine del regime di al-Bashir nel 2019. Dopo una sequenza sempre più intensa di raid aerei e scontri a fuoco, il conflitto può entrare in una nuova fase dopo che l’esercito regolare ha schierato le sue truppe di terra nel confronto con i paramilitari nati come eredità delle milizie Janjaweed, accusate di brutalità ai tempi della guerra del Darfur.
Uccisi operatore Oim e cittadino americano
Le ong attive nel paese parlano di una «catastrofe», in un conflitto che sta bersagliando apertamente anche ospedali, sedi diplomatiche e operatori umanitari. Nella sola giornata del 21 aprile si sono registrate l’uccisione di un lavoratore della International Organization for Migration e un assalto - respinto - all’ambasciata francese, mentre il dipartimento di Stato Usa ha confermato nel pomeriggio dello stesso giorno la morte di un cittadino statunitense nel Paese. Nelle prime battute del confitto si sono contate un’aggressione all’ambasciatore della Ue a Khartoum, il fuoco aperto su un convoglio Usa, assalti agli edifici occupati dallo staff delle Nazioni Unite e la morte di tre funzionari del Programma alimentare mondiale (Pam), in aggiunte alle denunce di abusi e violenze sessuali a danno di operatori umanitari. Le diplomazie dei paesi occidentali sono al lavoro per soccorrere i cittadini rimasti sul luogo dello scontro, accanto ai milioni di sudanesi blindati da giorni nelle proprie abitazioni o intrappolati fra mercati e l’aeroporto di Khartoum. Usa, Germania, Spagna e altre amministrazioni hanno annunciato o stanno lavorando sull’evacuazione dei propri cittadini. «Ci stiamo preparando ad evacuare l’ambasciata in Sudan se necessario, ma non siamo ancora arrivati a quel punto» ha sottolineato il portavoce della sicurezza nazionale statunitense, John Kirby.
La stessa Ue ha comunicato che sta «provando a coordinare un’operazione per evacuare i nostri civili dalla città, la cui situazione è ora ad alto rischio. Stiamo lavorando a differenti opzioni». La Farnesina fa sapere che sta «monitorando» i circa 200 italiani che si trovano nel Paese, senza rilasciare commenti su eventuali manovre per il loro rimpatrio.
Appelli (falliti) alla tregua e rischi di espansione del conflitto
Le ricadute più pesanti, comunque, non possono che rovesciarsi su una popolazione civile già provata da anni di instabilità politica ed emergenze umanitarie, a partire da una «insicurezza alimentare» che insidiava nel 2022 circa un terzo dei 46 milioni di cittadini del terzo paese più grande dell’Africa. Gli osservatori temono che il conflitto si allarghi al resto del paese e comprometta ulteriormente la stabilità di una regione sotto il pressing congiunto di instabilità politica, stagnazione economica e crisi climatica.
Il Sudan, gigante strategico per la sua posizione geografica e la ricchezza di materie prime, è al centro di interessi di una lista di attori che include - anche - Egitto, Russia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Il Cairo, reduce dal rimpatrio di oltre 200 militari, è ritenuto vicino ad al-Burhan, classificato come un alleato affidabile nelle tensioni che coalizzano Egitto e Sudan contro l’Etiopia di Abiy Ahmed e il suo progetto di una maxi-diga per drenare le acque del Nilo. Il suo rivale Dagalo, risalito agli “onori” delle cronache con le sue milizie ne genocidio del Darfur, è ritenuto vicino alla Russia e alcune fonti ipotizzano un rapporto fra i paramilitari e i contractors russi della Wagner. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, coinvolti per il proprio interesse sulla costa del Mar Rosso, guardano con favore a entrambi e stanno cercando di stemperare un conflitto che potrebbe spingersi ben oltre i primi bilanci registrati dalle organizzazioni internazionali.
Non sono gli unici ad aver tentato un appello al cessate il fuoco rieccheggiato trasversalmente, dalla Ue alla Turchia di Erdogan. I risultati sono nulli, visto che le varie «tregue» annunciate finora sono naufragate in un rimpallo di accuse fra le fazioni in campo. L’esercito regolare è disposto a negoziare dopo una sconfitta effettiva dei paramilitari. Le Rapid support forces e lo stesso Dagalo, attivissimi su Twitter con i rispettivi profili, accusano le forze armate regolari di violazione delle tregue e insensibilità ai diritti dei cittadini sudanese. «Ci battiamo per la democrazia» ha dichiarato lo stesso Dagalo all’inizio delle ostilità.
L’operatrice Msf intrappolata a Khartoum
L’Ong internazionale Medici senza frontiere parla di una «catastrofe» e spiega che le forniture mediche a sua disposizione rischiano di esaurirsi nell’arco di tre settimane, nel vivo di una crisi che ha costretto alla chiusura un numero crescente di ospedali e impedisce lo stesso movimento agli operatori attivi in Sudan. Camille Marquis, Outgoing Advocacy Manager di Msf nel paese, è rimasta bloccata nel paese dallo scoppio del conflitto insieme ad alcuni colleghi e sta testimoniando in prima persona il deteriorarsi della situazione umanitaria.
In una testimonianza scritta condivisa con il Sole 24 Ore, Marquis racconta che gli operatori Msf sono impossibilitati a raggiungere le strutture dove dovrebbero prestare servizio, in particolare nel Darfur occidentale e nella sua capitale Geneina. «Se gli operatori umanitari non possono continuare a lavorare in sicurezza, per fornire assistenza e supporto alla nutrizione, e se i pazienti non possono accedere alle cure o raggiungere un ospedale senza paura - spiega Marquis - vuol dire che milioni di bambini e altre persone vulnerabili sono a rischio». Già prima del conflitto, dice Marquis, «un terzo della popolazione sudanese era ritenuta a rischio dal punto di vista alimentare. Ora possiamo solo aspettarci che la situazione peggiori».
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