Sudan, Onu: esercito e ribelli accettano colloqui in Arabia
Il sindacato dei Medici parla di almeno 400 vittime solo fra i civili. Il capo dei paramilitari Dagalo: negoziati solo con fine delle ostilità
I punti chiave
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Il programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam) ha annunciato oggi la ripresa delle sue attività in Sudan dopo la sospensione seguita all’uccisione di tre dei suoi dipendenti: «Il Pam sta rapidamente riprendendo la programmazione per fornire l’assistenza salvavita di cui così tante persone hanno bisogno in questo momento», ha scritto su Twitter il direttore esecutivo del Pam Cindy McCain. Il 16 aprile il programma aveva dichiarato di aver temporaneamente sospeso tutte le sue attività in Sudan dopo che 3 membri del suo staff erano rimasti uccisi negli scontri tra l’esercito sudanese e le forze paramilitari di supporto rapido.
Intanto, ennesima tregua annunciata a Khartoum, la capitale del Sudan travolta dal conflitto fra l’esercito regolare e i paramilitari delle Rapid support forces. Gli stessi paramilitari hanno dichiarato l’avvio di un nuovo cessate il fuoco unilaterale di 72 ore, dopo il flop di quello entrato in vigore il 21 aprile e prorogato con vari insuccessi fino al 29 aprile.
I generali in guerra del Sudan hanno accettato di inviare i propri rappresentanti per i negoziati, probabilmente in Arabia Saudita, ha detto oggi l’alto funzionario delle Nazioni Unite nel Paese Volker Perthes, anche se nella capitale Khartoum l’esercito e i ribelli hanno continuato a bombardare nonostante l’estensione del cessate il fuoco. Lo riporta il sito dell’Ap. Se i colloqui avranno luogo, si concentreranno sulla creazione di un cessate il fuoco “stabile e affidabile” monitorato da osservatori nazionali e internazionali, ha affermato Perthes, ma ha avvertito che ci sono ancora difficoltà nei negoziati.
I dati del ministero della Sanità locale registrano oltre 500 vittime e più di 4.500 feriti, un bilancio che potrebbe essere parziale rispetto alla portata effettiva del conflitto. Il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, parla di una situazione «senza precedenti» e dichiara che le Nazioni Unite invieranno «immediatamente» in Sudan il coordinatore per le emergenze e gli aiuti umanitari, Martin Griffiths.
Paesi stranieri procedono con evacuazioni
I paesi stranieri hanno intanto evacuato tutti i loro cittadini in mezzo al caos, mentre l’Onu rinnova il suo allarme per la crescita di richiedenti asilo che potrebbero cercare riparo nei paesi confinanti. A Port Sudan, la città costiera che fa da snodo alle evacuazioni, sono arrivate le prime otto tonnellate di aiuti. La Croce rossa «spera» che possano raggiungere Khartoum, la capitale che dista 850 chilometri e si ritrova sempre più isolata dopo l’esodo di diplomatici e organizzazioni internazionali.
La fuga degli occidentali
Nel frattempo proseguono le operazioni di evacuazione degli occidentali, già defluiti da Khartoum con missioni di urgenza delle varie diplomazie. Il 30 aprile si era aperto con le tensioni legate alla partenza dell’ultimo volo di evacuazione britannico che ha subito dei ritardi a causa dell’impedimento da parte dell’esercito sudanese. Alla fine il volo ha lasciato nella notte l’aeroporto di Wadi Saeedna, a nord della capitale, Khartoum.
Un convoglio di bus con circa 300 americani ha lasciato venerdì sera la capitale del Sudan, iniziando un viaggio di 850 km verso il Mar Rosso, in quello che è il primo sforzo organizzato degli Usa per evacuare i propri cittadini dal paese. Lo scrive il New York Times. Il convoglio, che ha seguito un percorso di evacuazione utilizzato dall'Onu e da molte altre nazioni sin da domenica, è stato seguito da droni americani armati che volteggiavano in cerca di minacce. Il Sudan ospita circa 16.000 cittadini Usa, molti dei quali con doppia nazionalità.
Intanto, un numero crescente di persone afferma di essere bloccato in Sudan perché i dipendenti delle ambasciate occidentali sono fuggiti dal paese in preda al conflitto senza restituire i passaporti che erano stati consegnati per le domande di visto. I diplomatici di almeno tre rappresentanze occidentali non sono stati in grado di restituire i documenti di viaggio a cittadini sudanesi, secondo testimonianze raccolte dalla Cnn. La maggior parte delle ambasciate occidentali in Sudan sono state evacuate una settimana dopo l'inizio dei combattimenti, lasciando molti richiedenti il visto sudanesi senza documenti di viaggio e in un limbo legale.
Centinaia di vittime
Colpi di arma da fuoco e artiglieria sono stati percepiti già nella giornata del 29 aprile, con le Rsf che denunciano la «violazione» dell’intesa a opera delle forze regolari. Gli stessi paramilitari hanno riferito via Twitter di aver abbattuto un aereo da guerra Mig sudanese in un’operazione di difesa dall’offensiva condotta dall’esercito.
Nel frattempo cresce il bilancio delle vittime e si registrano combattimenti al di fuori dell’epicentro della capitale Khartoum. Il sindacato dei medici sudanesi registra «almeno» 411 vittime civili, un dato che si incrocia con il bilancio sempre più allarmante del ministero della Sanità nazionale. L’ultimo registra 528morti e 4.599 feriti,
Secondo alcune stime, quasi 90 vittime arrivano dal solo Darfur, la regione occidentale già martoriata da un conflitto che si è protratto per quasi 20 anni ed è costato oltre 300mila vite. L'ospedale di Geneina, supportato dalla ong internazionale Medici Senza Frontiere (Msf) e principale struttura sanitaria dell'area, è stato saccheggiato dopo una violenta irruzione avvenuta negli ultimi due giorni
Il capo dei paramilitari: nessun negoziato senza fine scontri
Il confronto si sta consumando fra le forze armate guidate dal generale al-Burhan e il capo delle Rsf Dagalo, detto «Hemetti», già suo vice e spalla nel colpo di Stato orchestrato dai due nel 2021. Intervistato dalla Bbc, lo stesso Dagalo, ha dichiarato di essere aperto a un dialogo, a patto che «cessino le ostilità». I paramilitari, eredi delle milizie che avevano seminato il terrore ai tempi della guerra in Darfur, hanno accusato più volte l’esercito di violare le varie tregue mediate da Usa e Arabia Saudita. L’esercito respinge le contestazioni, accusando a sua volte le Rsf di violenze e violazione delle intese. Il rappresentante speciale dell’Onu in Sudan, Volker Perthes, ha dichiarato che le due parti in conflitto sembrano comunque più «aperte» al dialogo, anche se ammette di ignorare quando e come potrebbero «sedersi veramente insieme».
L’ex premier: guerra civile sarebbe incubo per il mondo
L’escalation ravviva i timori di una guerra civile a tutti gli effetti, con strascichi allarmanti sul futuro dello stesso Sudan e di una regione già martoriata dalle crisi dei paesi confinanti. L’ex primo ministro sudanese Abdalla Hamdok spiega che il conflitto può tramutarsi in un «un incubo per il mondo intero». Quella in corso, sottolinea Hamdok, «non è una guerra tra un esercito e una piccola fazione di ribelli - dice - È quasi come ci fossero due eserciti: ben addestrati e ben armati». Hamdok, due volte premier del Sudan tra il 2019 e il 2022, ha aggiunto il grado di insicurezza potrebbe raggiungere livelli anche superiori di quelli innescati da crisi simili in Libia e Siria.
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