Sull’Irap troppe modifiche e poco gettito
di Giuseppe Napoli e Raffaele Vitale
2' di lettura
Mentre con linizio del nuovo anno la nostra politica economica formula i suoi buoni propositi alla luce anche dell’imminente tornata elettorale, sarebbe opportuno, in tale scenario, un esame coraggioso e realistico delle scelte fiscali, sulla base dei risultati attesi e di quelli finora raggiunti.
Analizzando le entrate tributarie dal 2013 al 2015 prima e poi al 2017, il gettito Irap si presenta in visibile calo: da 34.767 milioni a 29.370, fino a scendere 23.241 milioni di euro (con un minimo rialzo rispetto al 2016).
Il risultato è evidente, trattandosi del principale prelievo fiscale destinato alle Regioni e, quindi, al finanziamento della spesa sanitaria.
Una “sanità negata”, com’è stata definita, capace di costringere molti (undici milioni d’italiani nel 2016) a rinviare le prestazioni sanitarie o a rinunciarvi, tanti altri (si stima 10,2 milioni) a preferire la sanità privata a quella pubblica, mentre il 57,1% dei cittadini ritiene, per coloro in grado di permettersi una polizza sanitaria, che sia giusto stipularla.
In effetti, l’Irap, sotto diversi profili ricorda la «teoria dell’illusione finanziaria» elaborata nel lontano 1903 da Amilcare Puviani, giacché concepita per sostituire altri tributi (con l’effetto sperato di ridurne la “penosità”, mantenendone inalterato il gettito), rafforzare l’autonomia finanziaria delle Regioni e favorire la patrimonializzazione delle imprese (rientrando nell’imponibile i costi di finanziamento e del lavoro).
A distanza di circa vent’anni dalla sua introduzione, tuttavia, si registrano numerosi e non sempre coerenti rimaneggiamenti legislativi (esclusione di determinate categorie dal novero dei soggetti passivi, riduzione della base imponibile riguardo a forme d'indebitamento e utilizzo di risorse umane giudicate meritevoli di tutela), pienamente rientranti nella discrezionalità del legislatore, se sorretti da non irragionevoli motivi di politica economica e redistributiva, che però non hanno consentito di superare le difficoltà strutturali del nostro sistema imprenditoriale, né di accrescere la disponibilità finanziaria delle autonomie locali.
Perciò, è auspicabile un’adeguata verifica, alla luce anche degli elementi offerti dalla dottrina.
Ad esempio, uno scritto risalente al 2013 (alcune osservazioni in merito a una recente proposta di abolizione dell’Irap, di Federico Pica e Salvatore Villani, in Rassegna tributaria, numero 6/2013), dopo un puntuale confronto con l'esperienza tedesca e francese, valuta positivamente per il mercato la sostituzione dell’Irap con due punti di Iva e ritiene sopravvalutato il maggior onere riferito ai consumi, concludendo come un alleggerimento del carico tributario sulle imprese sia opportuno per «agganciare il treno della ripresa».
Orbene, non è intento di queste brevi considerazioni, elaborare proposte esaustive di abolizione dell’Irap (nè arrivare a rimpiangere le vecchie imposte) quanto invitare la nostra politica ad abbandonare l’atteggiamento di “puntellare” con infiniti interventi normativi un'imposta “mal fatta” e trovare il coraggio di proporre un'adeguata scelta di sistema, senza l'eccessivo peso che il dibattito assegna all'equilibrio finanziario.
La questione fondamentale con cui misurarsi oggi più che mai, non è tanto il mero equilibrio, bensì lo sviluppo economico e la produttività, volano dello sviluppo civile, facendo leva sull'opinione pubblica qualificata e discutendo leggi e linee di politica economica e fiscali raccomandabili, come hanno insegnato i classici del pensiero economico, a partire da Adam Smith.
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