Sull’Iraq l’ombra di Soleimani, il generale più temuto in Medio Oriente
Il comandante iraniano sarebbe il regista della riorganizzazione sciita. Dall’Afghanistan al Libano l’agenda politica e militare di Teheran ha la sua firma
di Roberto Bongiorni
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Per il Mossad era forse il nemico numero uno, il personaggio più temibile dello Stato più ostile ad Israele, l’Iran. Per gli Usa, Qasem Soleimani - ucciso in un raid americano a Baghdad - era da tempo un potente generale a capo di una forza militare inserita, per volere dello stesso Trump, nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali. Per l’intelligence saudita, che aveva perfino valutato la possibilità di eliminarlo, era semplicemente il diavolo. Agli occhi dei capi di Stato arabi, e non, era il “direttore” del caos mediorientale, colui che muove le fila in almeno tre teatri di guerra, promuovendo l’agenda politica e militare iraniana dall’Afghanistan al Libano.
Terrorista, stratega, generale con velleità politiche, Qasem Soleimani era una figura quasi leggendaria. Era l’uomo nell’ombra. Ogni volta che scoppiava una crisi in un Paese del Medio Oriente dove vive una corposa comunità sciita, prima o poi si faceva vivo.
La misteriosa visita a Baghdad durante le proteste
Nato nel 1957 fa da una famiglia di contadini in un villaggio vicino a Qom, la città più religiosa dell’Iran, Soleimani era da 20 anni il comandante delle brigate Quds, un’efficiente costola dei Guardiani della Rivoluzione (i Pasdaran). In altre parole era il responsabile di tutte le attività militari, ufficiali e segrete, che avvengono al di fuori dei confini iraniani. E, considerando l’ambizione di Teheran ad assurgere al ruolo di potenza regionale del Golfo, non sono certo poche.
Non stupiscono dunque le indiscrezioni, riportate da un’inchiesta dell’Associated Press, secondo cui il generale iraniano era arrivato a Baghdad il giorno successivo allo scoppio della seconda ondata di proteste popolari, con l’obiettivo di rafforzare lo schieramento sciita. Fonti riservate hanno riferito che si sia spostato in elicottero nella “Green Zone” per presiedere a una riunione di sicurezza governativa, facendo le veci, pare, addirittura del premier iracheno Adel Abdul-Mahdi.
D’altronde è facilmente intuibile la preoccupazione dietro questa visita inaspettata del generale Qasem. Evitare che le proteste scoppiate a Baghdad e e nelle regioni meridionali del Paese, contro la corruzione, contro il caro vita, ma anche contro l’ingerenza iraniana nel Paese, sfuggissero al controllo del Governo iracheno. E che, con un già conosciuto effetto domino, le fiamme del malcontento divampassero anche nel vicino Iran. Alcuni testimoni avrebbero riportato quanto detto da Soleimani in quell’occasione: «Noi in Iran sappiamo come affrontare questo tipo di proteste. È successo e abbiamo riportato la situazione sotto controllo». Un chiaro riferimento all’onda verde, la grande protesta iraniana seguita alla controversa elezione del presidente Ahmadinejad nel 2009. La repressione fu molto dura.
Difficile sapere cosa sia successo in quella riunione . Tuttavia, il giorno seguente le forze di sicurezza irachene e le milizie sciite hanno represso le manifestazioni in modo più duro. Nell’arco di sette giorni il bilancio delle vittime è salito rapidamente.
I teatri di guerra del generale
Certo, non vi sono prove che indichino un ruolo attivo di Soleimani nella strategia di repressione. Il generale era un maestro nell’agire nell’ombra, senza lasciare traccia. Altre volte, però, è uscito allo scoperto per vestire i panni di un “ministro degli Esteri in uniforme”. Pochi in Iran possono vantarsi di incontrare di persona il presidente russo Vladimir Putin e il suo ministro degli Esteri. Corre voce che fosse lui a scegliere gli ambasciatori di Teheran per le capitali del Medio Oriente. D’altronde era Soleimani a dettare la linea politica, e militare, del potente movimento sciita libanese, gli Hezbollah, altro storico nemico di Israele. Ed era sempre lui a disegnare le strategie della guerra in Yemen portata avanti da 5 anni dai ribelli sciiti vicini a Teheran, gli Houti, in lotta con la coalizione guidata dall’Arabia.
Insomma, tutto ciò che di iraniano avviene fuori dall’Iran passava dalla scrivania dell’esperto Qasem. Come i rapporti con il movimento islamico Hamas, nella Striscia di Gaza, o con le milizie sciite sostenute da Teheran - le forze di mobilitazione popolare - che in Iraq sono divenute una sorta di secondo esercito del Paese.
Quando Soleimani cooperava (indirettamente) con gli Usa
In passato si è parlato del suo presunto coinvolgimento dietro gli attacchi effettuati dalle milizie sciite contro obiettivi americani dopo l’invasione dell’Iraq del 2003. Eppure Soleimani non è sempre stato un nemico degli Usa. Vi sono stati periodi in cui tra il generale più potente dell’Iran e la Casa Bianca vi era una sorta di cooperazione. Limitata, ma che aveva dato i suoi frutti. Si racconta che Soleimani abbia cooperato con Washington per far eleggere il premier iracheno Nouri al-Maliki nel 2010. E che per fermare l’offensiva dell’esercito del Mahdi, le milizie anti-americane guidate dal clerico iracheno sciita Muqtada al-Sadr, Washington abbia chiesto la mediazione proprio di Soleimani. Il quale, avrebbe avuto perfino un ruolo quando l’esercito Usa ricevette la mappa delle basi dei Talebani dopo l’invasione dell’Afghanistan (2001).
Da tre anni Qasem si era concentrato soprattutto sul dossier siriano. Dove ha formato milizie sciite e trasferito personale iraniano e armi in molte basi militari aeree siriane. Una mossa inaccettabile per Israele. Che ha reagito con diversi blitz. Ma Soleimani era un osso duro, un uomo scaltro. Divenuto uno dei personaggi più vicini al leader supremo dell’Iran, il “falco” Ali Khamenei. Il quale non ha esitato a definirlo un «martire vivente della rivoluzione».
Articolo aggiornato il 3 gennaio 2020
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