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Sulla disinformazione arriva un nuovo codice Ue

Ieri, a Bruxelles, ho consegnato alla Vicepresidente della Commissione europea Jourova e al commissario per il mercato unico Breton il nuovo codice di condotta europeo contro la disinformazione, sottoscritto da trentaquattro firmatari, operanti in settori assai diversi

di Oreste Pollicino

(Adobe Stock)

5' di lettura

Ieri, a Bruxelles, ho consegnato alla Vicepresidente della Commissione europea Jourova e al commissario per il mercato unico Breton il nuovo codice di condotta europeo contro la disinformazione, sottoscritto da trentaquattro firmatari, operanti in settori assai diversi. Dalla società civile, alle grandi piattaforme, dai factchekers alle imprese operanti nel settore pubblicitario. Il mio ruolo è stato quello di honest broker, di facilitatore e coordinatore del processo, assai complesso, di scrittura di un codice che, come si dirà, risponde finalmente a logiche di co-regolamentazione (e non più si sola self-regulation).
Il cambio di paradigma è fondamentale per contrastare in modo efficace un fenomeno di cui la crisi pandemica prima e quella bellica hanno solo fatto ulteriormente emergere i gravissimi effetti distorsivi, ben conosciuti già prima, che è in grado di produrre. Specialmente quando si tratta di disinformazione on line.

Per comprendere appieno il valore aggiunto del processo di scrittura che si è descritto e del suo esito finale è importante fare un passo indietro.

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Nel 2018 la Commissione europea chiama alcuni esperti per definire una prima strategia contro la disinformazione on line. Gli italiani erano Federico Fubini, Gina Nieri, Gianni Riotta ed il sottoscritto. Successivamente al report prodotto dagli esperti l'esecutivo europeo decide, anche perché mancava una base giuridica appropriata, di puntare sulla autoregolamentazione. Ad influenzare tale scelta vi è stata anche la convinzione, da parte di alcuni studiosi del settore, membri (non italiani) anch'essi di quel gruppo di esperti, che tutto ciò di cui l'Europa avesse bisogno fosse di “importare” dagli Stati Uniti la metafora del “libero mercato delle idee”. Quindi una fiducia cieca nella capacità autocorrettiva del “mercato” a fare emergere, attraverso una free competition di idee e opinioni (anche quelle false), la verità, o comunque ad isolare la disinformazione senza la necessità di alcun intervento che prevedesse il coinvolgimento di istituzioni pubbliche.

Purtroppo l'idea non è stata delle migliori. Come si è scritto spesso su queste pagine, le metafore, come quella del libero mercato delle idee, vanno trattate con cura, e non possono essere superficialmente prese in prestito da ordinamenti che hanno un sistema di valori non del tutto coincidente con quello da cui la metafora è importata. Altrimenti il rischio è quello della crisi di rigetto. Esattamente ciò che avvenuto con il tentativo di importare l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale statunitense, dove la libertà di espressione ha un valore quasi sacrale, all'interno del tessuto normativo europeo in cui vi è tutta una costellazione di diritti da prendere in considerazione, che si giocano la partita alla pari e dove, specialmente il profilo passivo del diritto ad essere informato, se non in modo veritiero, quantomeno verificabile, è molto più presente e rilevante.

Alla luce di tali premesse, non è un caso che il codice di condotta del 2018 contro la disinformazione, che pure rappresentava un unicum a livello mondiale quale modello di impegno volontario, da parte delle piattaforme, ad adottare tutta una serie di misure che contenessero il fenomeno, è stato deludente quanto a vaghezza degli obblighi assunti da parte delle stesse piattaforme e l'assenza quasi completa di criteri per la verificabilità e la misurabilità degli impegni.

Si è quindi deciso, in sostanza, a partire dall'autunno dello scorso anno, di riscrivere, sotto il mio coordinamento ed alla luce delle linee guida della Commissione che erano nel frattempo state adottate (maggio 2021) un nuovo codice che potesse colmare le lacune del precedente ed essere uno strumento assai più efficace per contrastare un fenomeno che, intanto, era diventato di una gravità assoluta per gli effetti di inquinamento e di polarizzazione del discorso pubblico, che sempre più caratterizza le digital agorà ospitate dalle grandi piattaforme.

Rispetto al 2018 si avevano almeno quattro elementi aggiuntivi che non potevano cambiare in meglio quanto fatto con il primo codice di condotta del 2010.
1. La varietà e diversità di provenienza dei firmatari che non sono, più come si diceva in apertura, soltanto i grandi giganti del web;
2. La consapevolezza che bisognava trovare, dopo il fallimento dell'importazione statunitense del concetto di libero mercato delle idee, una risposta prettamente europea conforme all'assetto valoriale del vecchio continente;
3. Le linee guida della Commissione che fissavano la linea rossa al sotto alla quale, in termine di protezione dei diritti, non si doveva andare;
4. E, specialmente, la prossima entrata in vigore del Digital Service Act che farà dei codici di condotta, compreso quello appena presentato sulla disinformazione, strumenti privilegiati di co-regolamentazione. Il che, in soldoni vuol dire che in caso di inadempimento da parte dei firmatari degli impegni assunti, ci saranno delle sanzioni dalla parte delle istituzioni europee.

Questo cocktail esplosivo ha fatto si che ci fosse un clima costruttivo all'interno delle numerosissime sessioni di drafting tra i fari firmatari, che le piattaforme si siano aperte a molti dei suggerimenti provenienti dalla società civile e che si arrivasse ad un codice che ha sicuramente dei punti di forza rispetto a quello precedente.

A volere riassumere quelli che mi paino più rilevanti:
1. Innalzare il livello di sicurezza, innanzitutto da parte degli spazi, sempre più, di fatto, digital agorà, ospitati dai giganti del web, contro tecniche, procedure e strategie di disinformazione;
2.Rafforzare la posizione degli utenti, attraverso nuovi strumenti che siano in grado sia identificare con più facilità informazioni false, sia di mitigare il rischio di un inquinamento del dibattito;
3. Garantire un accesso ai ricercatori, ovviamente in conformità a quanto previsto dal GDPR, ai dati necessari per poter condurre una ricerca anche empiricamente valida sui processi di disinformazione;
4. Prevedere impegni, misure e criteri di misurazione per una effettiva “demonetizazion” dei propagatori della disinformazione, vale a dire fare il possibile per evitare che i professionisti delle fake news possano avere un serbatoio economico a cui attingere, specialmente riguardo, ovviamente, ai proventi pubblicitari;
5. Garantire un dialogo costante tra piattaforme e factcheckers che hanno diritto ad una remunerazione equa;
6. Una attenzione particolare a identificare subito quel tipo di pubblicità in rete che non ha solo fini commerciali, ma anche, in senso lato, politici.

C'è, in conclusione, anche alla luce del meccanismo di co-regolamentazione prima descritto, un potenziale davvero innovativo in questo nuovo codice che potrebbe fornire una risposta finalmente adeguata, a livello europeo ed in conformità, questa volta, alle radici costituzionali del vecchio continente. A patto però, che dal giorno successivo alla presentazione del codice, si cominci a lavorare per rendere effettivi gli impegni presi. Non è una coincidenza che lo stesso codice preveda la creazione di un centro indipendente di valutazione e di monitoraggio della trasparenza e serietà delle azioni intraprese.Si tratta in ogni caso del primo meccanismo, a livello globale, di co-regolamentazione del fenomeno della disinformazione sulla base di un codice di condotta che impegna tutte le principali parti in causaQuesta è gia una buona notizia

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