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Suonare le immagini, vedere il suono

Lo sviluppo tecnologico offre nuovi campi di esplorazione e l'ibridazione tra musica e video conquista i palcoscenici, in un'ambizione di multidisciplinarietà che – sorpresa – è vecchia almeno mezzo millennio. Un saggio firmato da Emanuele Ponzio ne traccia l'appassionante parabola

di Michele Casella

In queste fotografie, la performance audiovisiva “Infinity insight” del duo Citty e Aeldryn (LiZvisuals, Elisa Antonacci)

5' di lettura

All’inizio degli anni Duemila la performance live si arricchiva delle proiezioni su grande schermo e le star della musica pop/alternativa legavano i loro nomi a quelli di artisti visuali di notorietà internazionale. Dopo quei primi esperimenti di semplice sovrapposizione fra audio e video, la musica popular si è imprescindibilmente legata alle sue epifanie visive, che trovano un riverbero determinante non solo nelle dinamiche di carattere artistico/estetico, ma anche nelle strategie di marketing e nelle modalità di affabulazione multisensoriale. Ma se l'ibridazione può essere considerata la forma più esemplare di contemporaneità, l'incrocio fra musica e immagini può essere fatta risalire a secoli fa, perlomeno a quando Isaac Newton dedusse che i colori sono in analogia con le note musicali.

Questa lunga e appassionante ricerca è alla base del volume Immagine in tempo reale, scritto da Emanuele Ponzio per Mimesis Edizioni e dipanato attraverso 300 pagine fittissime di suggestioni artistiche e invenzioni tecniche. Lo studio si spinge indietro fino all'anno 1563, quando la pittura cominciava a esplicitare la profonda connessione fra suono e valori cromatici, ma l'obiettivo del libro è innanzitutto quello di realizzare un'analisi della performance audiovisiva contemporanea in un arco temporale che va dagli anni Novanta ad oggi. Attraverso una narrazione dettagliata e appassionante, che rivela in maniera determinante il legame fra sviluppo tecnologico e intuizione creativa, l'autore riesce ad affascinare non solo con le pratiche performative del vjing in tempo reale, ma soprattutto con le visionarie ossessioni che hanno caratterizzato la vita di alcuni autori fra la fine del Seicento e l'inizio del Novecento. Già al lavoro dal 2001 come artista visuale e VJ, Emanuele “ape5” Ponzio è anche autore di performance multimediali, e con il libro Immagine in tempo reale svela una storia determinante su una delle pratiche più (ab)usate dei nostri giorni.

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Il percorso che compi parte dalle basi della crossmedialità: da dove nasce l’esigenza di realizzare una cronistoria delle interazioni artistiche?

«Il percorso a ritroso del mio testo parte proprio dall'inizio del Millennio, quando la possibilità offerta dalla tecnologia digitale di “ibridare” medium differenti come il video e l'audio ha portato in auge il concetto di crossmedialità così come quello di multimedialità. Conseguentemente è stato alimentato l'evolversi di pratiche artistiche come quella del VJing e della performance audiovisiva in generale. In realtà, nel connubio tra suono e immagine lo stesso concetto di crossmedialità, inteso come opera d'arte multidisciplinare sintesi di diverse arti (come “l'opera d'arte totale” teorizzata da Richard Wagner o “l'arte monumentale” alla quale ambiva Kandinskij) è già messa in pratica agli inizi del Novecento. Per esempio il compositore russo Skrjabin con l'opera “sinestetica” Prometeo ha creato uno spettacolo capace di mettere insieme armonicamente luci, musica e altre discipline artistiche come la danza e la poesia».

L’evoluzione di tecniche e di strumenti è sempre andata di pari passo, accelerando in maniera fulminante l’evoluzione artistica degli ultimi 30 anni, in particolare nella videomusica. Che cosa ha significato per te passare dall'era analogica a quella digitale?

«Faccio parte di quello che nel mio libro ho definito come un periodo “ibrido” della performance audiovisiva, quello del passaggio dall’analogico al digitale. Agli inizi del Duemila si mixavano flussi di immagini registrate su VHS e immagini in movimento prodotte con il computer. Il live set erano costituiti da mixer video, computer, videoregistratori e valige piene di cassette. Anche i mixer video erano ibridi, potevano mixare fonti analogiche e digitali. Oggi quasi nessuno utilizza input analogici se non per una scelta puramente estetica, anche se le stesse apparecchiature utilizzate dal performer visuali, in particolare i controller, ricordano nell'aspetto i campionatori e i synth analogici. Questi apparecchi restituiscono una sorta di “fisicità” al live audiovisivo tipica degli strumenti analogici, rendendo “tangibili” al performer le funzionalità del software e la performance dal vivo più intellegibile dal pubblico».

Immagine in tempo reale, di Emanuele Ponzio per Mimesis Edizioni

(LiZvisuals, Elisa Antonacci)

Il video-scratch è forse la prima tecnica precipuamente pop nell’approccio alla videomusica. Che ricordi hai di quegli anni in cui si iniziava a sperimentare a livello domestico?

«La tecnica del video-scratch, mutuata da quella del turntablism del DJ, nasce alla fine degli anni Ottanta in Inghilterra come pratica contro-culturale di manomissione dei messaggi video mainstream della televisione, per donargli una nuova rete di significati anche veicolando un messaggio totalmente diverso da quello originario. Questa “riappropriazione” del medium video avvenne grazie allo sviluppo tecnologico del video analogico e alla diffusione di videoregistratori e videocassette a uso domestico. Agli inizi del 2000, anche noi abbiamo vissuto la stessa accessibilità alla tecnologia digitale che ha consentito una sorta di riconquista dei nuovi media: sotto il motto “don't hate the media, become your media”, abbiamo preso possesso delle nuove tecnologie digitali per raccontare un'altra prospettiva».

In che modo il cinema ha inglobato il lavoro sviluppato a livello teorico e pratico della videomusica?

«Il rapporto tra cinema e musica è un argomento molto vasto… A me viene subito in mente il cinema di Kubrick, che ha un legame molto stretto, quasi imprescindibile, con la colonna sonora, così come le immagini senza dialoghi del film Koyaanisqatsi del regista Godfrey Reggio che scorrono sulle note di Philips Glass, e ancora la danza delle scope a ritmo di musica diretta dall'apprendista stregone Topolino in Fantasia di Walt Disney… Nel mio libro ho descritto soprattutto un certo tipo di cinema sperimentale degli anni Venti, che secondo me ha forti attinenze con la pratica dal vivo dei performer visuali contemporanei di manipolare le immagini in tempo reale. Il cosiddetto cinema “astratto” del cinema d'avanguardia tedesco, che seppur pre-sonoro inizia a mettere in relazione l'immagine in movimento con le strutture tipiche della musica quali il ritmo».

La performance video è oggi un elemento naturalmente inserito negli spettacoli pensati per il grande pubblico. Pensi ci sia ormai una desensibilizzazione dell'occhio anche nelle visioni dal vivo?

«Sicuramente sì. Soprattutto il contesto della musica dal vivo è saturo di video quasi come fosse un contorno del concerto alla stregua delle luci del palco. Ma al tempo stesso io credo che questo sia un momento abbastanza maturo del live visuals per poter trovare la sua autenticità come pratica artistica. Ne è un esempio il Live Cinema Festival di Roma, che ospita opere di registi/performer che propongo un cinema in tempo reale, effimero e ogni volta unico, che solo l'autore può riprodurre e nessun altro può eseguire, poiché egli stesso è al tempo stesso interprete e compositore dell'opera».

L’interazione è la nuova frontiera del visual, l'hanno compreso anche i grandi network e il pubblico della tv digitale. Dove ci condurrà il futuro? Che spazio avrà la realtà virtuale?

«L'interattività è un altro concetto che è stato esaltato dalla tecnologia digitale e dai nuovi media, ma anche le performance di Nam June Paik con videocamere e televisori negli anni Sessanta erano interattive e permettevano al pubblico di interagire con l'opera di videoarte, anche intervenendo per influenzarla. La possibilità di interazione offerte dalla realtà virtuale sono solo uno strumento che può o meno essere utilizzato per fini artistici. Penso alla bellissima installazione interattiva di realtà virtuale CARNE y ARENA del regista messicano Alejandro Iñárritu, che cala lo spettatore nella terrificante viaggio di un gruppo di rifugiati messicani. La realtà virtuale però è solo una tecnologia, come il violino e solo un strumento musicale, così come il videomapping è solo una tecnica di proiezione video. Ma arte e musica sono un'altra cosa».

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