ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùL'altra metà del potere

Superare il gap di genere: per una nuova definizione della leadership femminile

Un soft power che valorizza il potere dell’immaginario e la trasversalità delle competenze come risorsa economica per il Paese. Il punto di vista di Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà e punto di riferimento del mondo dell’audiovisivo italiano e internazionale.

di Nicoletta Polla-Mattiot

Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà e ideatrice del format “Un altro genere di leadership”. ©Stefano Bozzani

6' di lettura

Sulla leadership femminile, la specificità di un modello di gestione del potere empatico, multitasking, attento ai dettagli, maieutico e di squadra, esistono migliaia di scritti, ricerche, convegni, dichiarazioni di principio e di sostanza. Il rischio in tanta messe di pensiero e d'impegno, di ottime intenzioni e legittime richieste, è che il ragionamento si cristallizzi in cliché, così che per abbattere lo stereotipo maschile si finisca per edificare un muro di convinzioni altrettanto impermeabili al dialogo. Considerata la storia e l'attualità del gap di genere, è del tutto comprensibile: occorrono forza e tenuta per far valere un punto di vista ancora minoritario, nonostante le donne rappresentino metà della popolazione mondiale, e spesso la metà assente.

Parlare di questi temi con Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà e ideatrice dell'originale format “Un altro genere di leadership”, che ha debuttato a febbraio all’Acquario Romano, è un'esperienza refrigerante. L'atteggiamento di questa umanista prestata al management, punto di riferimento del mondo dell'audiovisivo italiano e internazionale, è quello di un'apertura di curiosità vivace e imparziale: la capacità di muoversi con uno sguardo vergine in un terreno battuto. La interrogo con l'orgoglio di far parte del primo gruppo editoriale certificato per la parità di genere (ai sensi della UNI/PdR 125:2022, rilasciato da Bureau Veritas). E la sua presenza, in apertura di questo numero speciale di HTSI, è l'occasione per ragionare insieme su come l'immaginario sia strategico per il cambiamento. Nella moda come nel cinema, nei giornali come nell'arte, la narrazione conta quanto e più del prodotto: creiamo racconti che sono direzioni, mondi che sono sogni realizzabili (magari a lungo termine), a volte indossabili e calzabili come una nuova identità, altre volte interiorizzati come role model, altre ancora replicabili fino a radicarsi nell'abitudine di immaginarsi diversamente.

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«Come dicono gli sceneggiatori americani: Show, don't tell! Io ci credo molto: è più efficace mostrare che non raccontare in modo didattico», commenta con quell'allegra veemenza che darà a tutta la nostra conversazione l'intensità di una ventata di cose da dire e da fare, tutte insieme. Mente chiara e passo sostenuto: pronti, via. «Le mie deleghe culturali sono a tutti gli effetti un soft power. Faccio leva su argomentazioni di carattere ideale, su quelle risorse intangibili che sono la cultura e i valori. Conta la capacità di suggestione: ci sono temi che svolti in modo pedagogico e frontale non sono masticabili, ma se un artista li fa propri e li mette davanti agli occhi del pubblico, senza spiegare, semplicemente facendo vedere e sentire, poco alla volta si sposta la percezione».

Il backstage di VB93, performance site-specific realizzata dall'artista Vanessa Beecroft. ©Courtesy Cinecittà

È stato così con il lavoro sul corpo delle donne realizzato con Vanessa Beecroft proprio all’interno dello storico Teatro 5: una performance site-specific intitolata VB93, e inserita all'interno di un progetto più ampio sul recupero dello sguardo femminile lungo la verticale dell'attualità. «Il patrimonio dell'Archivio Luce, un archivio centenario con migliaia di immagini e filmati, non aveva praticamente autrici. Per questo la prima decisione è stata di sostenere una visione delle donne non solo come oggetti della storia, ma anche soggetti. Abbiamo iniziato a lavorare sulla produzione documentaristica, sull'acquisizione di fotografie e di video di grandi artiste perché diventassero proprietà del museo».

Da qui all'organizzazione di una serie di tavoli di lavoro di confronto sullo specifico femminile è storia di quest'anno. «Io non sono una grande amante delle idee prestrutturate. Non mi interessava parlare di gender gap, differenze salariali, quote rosa, sono temi che non mi appartengono come essere umano. Tengo molto di più al riconoscimento del merito e al diritto che ciascuna ha di trovare un luogo dove possa essere riconosciuto ed espresso. Ecco l'obiettivo di raccogliere per un confronto tante donne così brave, che fanno lavori importanti, molto più del mio, che hanno una carriera luminosa, per raccontare la loro storia. Lia Rumma, Antonella Polimeni, Tinny Andreatta, Cristiana Capotondi, Giovanna Forlanelli, Mariacristina Gribaudi, Caterina d'Amico… impossibile citarle tutte. Caterina, quando abbiamo discusso sulle tre parole chiave del cambiamento – spazio, merito e cura – ricordava che suo padre (lo storico e critico musicale Fedele d'Amico, ndr) lavorava in casa in uno studio tutto boiserie con i libri fino al soffitto, in cui si isolava come un eremita. Sua madre invece (la sceneggiatrice Suso Cecchi d'Amico, ndr) scriveva nel soggiorno dove anche si pranzava, con i figli, i cani, i collaboratori che andavano e venivano, seduta sul divano con la macchina da scrivere sulle ginocchia. Ecco, questo racconta meglio di tanti ragionamenti astratti il modo in cui spesso gestiamo il nostro tempo. Personalmente, mentre facevo il direttore generale dell'APA, ho adottato mio figlio in Cambogia, ho fatto la “maternità accorciata” riconosciuta alle madri adottive, ho continuato a cucinare, occuparmi della lavatrice…».

Nella foto, alcune delle speaker protagoniste dell'incontro a Roma “Un altro genere di Leadership”.

Questa realtà multitasking, da storico elemento di penalizzazione può trasformarsi nella chiave di volta di una narrazione che metta la cura al centro: come sostanza pubblica, visibilità sociale e valore culturale, oltre che economico. Per farlo, ancora una volta, secondo Sbarigia, l'unica leva è rappresentarlo, più volte, perché entri nella coscienza spontanea e condivisa. «Io sono un'appassionata, mi butto con il cuore nelle imprese e cerco di coinvolgere anche emotivamente chi lavora con me. Quest'anno abbiamo lanciato una linea di produzione che non c'era a Cinecittà, i podcast (il primo è uscito il 2 febbraio: Un viaggio dispari, con Cristiana Capotondi, ndr). Stiamo lavorando a una mostra sulle architetture inabitabili, girando documentari dedicati a grandi figure come Benedetto Croce, Italo Calvino, Franco Zeffirelli, stiamo già progettando le iniziative per il nostro centenario del 2024 e stiamo rafforzando le attività internazionali per promuovere il cinema italiano, che sarà al MoMA di New York, a Los Angeles, a Tokyo. Ma il progetto che più mi rende felice è poter avviare una serie di corsi di formazione per le maestranze artistiche che ormai stanno scomparendo».

Se c'è un tema che accomuna i due grandi settori del made in Italy che producono spettacolo, rappresentazione e abitudini sociali, è la ricchezza e la varietà dei mestieri di backstage, poco conosciuti e valorizzati perché schiacciati dalla visibilità del front row: nella moda tutti i giovani aspirano a fare gli stilisti, nel cinema gli attori o i registi. Come nel fashion s'iniziano a valorizzare le professionalità artigianali, indispensabili per tenere in vita la filiera e tutto il sistema produttivo (un patrimonio unico di savoir-faire), allo stesso modo ci sono mestieri che stanno scomparendo sul set. «La cultura dell'audiovisivo include tanti tipi di professioni artistiche: abbiamo bisogno di tagliatori di stoffa specializzati (spero di raggiungere un accordo di collaborazione con Alberta Ferretti), di decoratori, di progettisti 3D. Pensiamo a tutti gli accessori delle serie tv… Bridgerton, per esempio: i gioielli sono stati fatti da un italiano che vive a Londra, Lorenzo Mancianti».

Un altro elemento di contiguità fra i due mondi, moda e spettacolo, è un pregiudizio di leggerezza, quando non di frivolezza, rispetto all'hardware del sistema economico nazionale. «Da questo punto di vista, a proposito di cambiare la narrazione e l'immaginario, abbiamo fatto passi da gigante e raggiunto molti traguardi. Quando ho iniziato negli anni Novanta nei mercati dell'audiovisivo, andavo a bussare alla porta del ministero del Commercio estero, che si occupava di aziende manifatturiere, e mi dicevano: “Ma voi che cosa vendete?”. Sogni, appunto. Immagini. Mondi. Oggi la nostra è un'industria, con aziende multinazionali, che valgono miliardi di euro e in più portano con sé la promozione di tante altre industrie (l'intero sistema produttivo culturale e creativo italiano, secondo i dati Symbola 2022, vale 88,6 miliardi di euro e attiva complessivamente 253 miliardi, ndr).

Uno dei wall dell'Archivio Storico dell'Istituto Luce: nel 2013 il suo Fondo cinegiornali e fotografie è entrato, unico tra gli archivi audiovisivi italiani, nel registro Memory of the World dell'Unesco.©Istituto Luce/Courtesy Cinecittà

Quando chiedo a Chiara Sbarigia qual è la sua definizione del made in Italy, ancora una volta, accende lo sguardo su un'angolazione imprevista: «È movimento». Vale a dire? «Penso che la caratteristica principale degli italiani sia l'adattabilità e la creatività. Quella capacità di far andare bene le cose anche se le premesse non sono le migliori. Carlo Poggioli, un costumista bravissimo, richiesto in tutto il mondo, mi raccontava che, una volta, avendo pochi soldi per realizzare un film in costume e non potendo permettersi né il tempo né i sarti necessari per ricamarli, aveva semplicemente dipinto i motivi decorativi sulla stoffa. Quei costumi sono meravigliosi e solo se si va a vederli da vicino, ci si accorge del trucco». Pare – almeno dai risultati del primo convegno sulla leadership di Cinecittà – che l'abilità di fare tanto con poco (tempo, mezzi, riconoscimento) sia una delle doti tipicamente femminili. «Io penso sempre che se il progetto c'è, se il contenuto c'è, alla fine la strada, anche economica, la trovo. Si trovano i finanziatori, si trovano gli sponsor, si trovano le persone che vogliono condividere con te un pezzo di strada. Certo, la mia giornata non finisce mai, comincia alle 7 del mattino e finisce tardi, molto tardi, anche perché adoro leggere e non rinuncerei mai a qualche pagina della Egan o di un'altra grande scrittrice americana prima di andare a dormire». Si interrompe, e riprende di scatto, con una risata breve che sembra uno squillo: «Già, per non farmi mancare nulla, sono anche giurata del Premio Strega!».

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