Supply chain: anatomia di una crisi
I problemi nelle catene di approvvigionamento globali sono diventati un tema caldo per l'effetto frenante sulla ripresa economica e delle pressioni inflattive
di Marcello Minenna
I punti chiave
8' di lettura
Negli ultimi mesi i problemi nelle catene di approvvigionamento globali (le supply chains) sono diventati un tema caldo per via dell'effetto frenante sulla ripresa economica e delle implicazioni in termini di pressioni inflattive, oramai sotto gli occhi di tutti.
Questi problemi sono relativamente nuovi per le economie contemporanee, molto più abituate ad aver a che fare con episodi di crollo della domanda, come fu all'epoca della crisi finanziaria globale. Stavolta paradossalmente la velocità e le dimensioni delle misure di sostegno pubblico alla domanda e ai redditi hanno determinato un recupero rapido e massiccio dei consumi a cui il sistema produttivo globale era impreparato.
Lo shift nelle abitudini di consumo
Le ragioni sono molteplici. Una di esse è il mutamento intervenuto nelle abitudini di spesa delle famiglie con un netto spostamento dai servizi (che spesso non permettono di mantenere il social distancing) ai beni. Il fenomeno riguarda le principali economie avanzate ed è molto ben rappresentato negli USA dove, dopo il tracollo di marzo-aprile 2020, il consumo di beni ha rimbalzato rapidamente (cfr. Figura 1) per poi proseguire su un trend di crescita decisamente più sostenuto di quello visto sino al 2019.
Sempre la pandemia è all'origine di vari altri fattori che alimentano le strozzature nelle supply chains, come nel caso dei tempi “morti” legati all'assolvimento dei protocolli sanitari o dello shutdown di hub cruciali per il traffico internazionale di merci. La scorsa estate, per il timore di nuovi focolai, la Cina ha chiuso prima il porto di Yantian e a seguire quello di Ningbo, il 3° porto container del pianeta. La recente ripresa dei contagi in molti paesi rappresenta una seria minaccia per il funzionamento di qualsiasi scalo.
L’assottigliamento delle scorte
Il Covid ha altresì alimentato un pericoloso assottigliamento delle scorte in molte industrie. Nel 2020 il congelamento dei consumi di beni non essenziali durante la prima ondata di contagi aveva fatto impennare le scorte in numerosi settori; come reazione, nei mesi successivi i produttori hanno cercato di smaltire le giacenze in eccesso minimizzando i nuovi ordini di materiali e rallentando i ritmi di lavoro. Di conseguenza l'improvviso ritorno della domanda ha comportato una diffusa carenza di scorte certificata dal notevole calo del rapporto scorte/vendite (inventories-to-sales ratio).
Prendendo ancora a riferimento l'economia USA, i dati del Census Bureau fotografano nitidamente la dinamica appena descritta. Nel settore automotive (cfr. Figura 2) l'inventories-to-sales ratio – che prima del Covid gravitava nel range 2-2,5 – è balzato a 3,2 ad aprile 2020 in sincrono col primo lockdown duro mentre già a maggio 2020 era precipitato a 1,9. Nel periodo seguente ha continuato la sua discesa e nell'ultima rilevazione di due mesi fa era poco sotto 1,2, corrispondente a un calo del 44% rispetto alla media di lungo periodo.
Anche gli altri settori, ancorché in modo meno marcato, hanno sperimentato un significativo logoramento delle scorte preceduto da un exploit di breve respiro all'inizio della prima ondata (cfr. Figura 3). A settembre 2021 l'inventories-to-sales ratio di tutti i settori escluso l'automotive era appena sopra 1, pari al 14% in meno rispetto alla media mensile di 1,23 registrata nel decennio 2010-2019.
Il paradigma dell'efficienza
Per quanto indubbiamente legata allo stop-&-go dovuto alla pandemia, la dinamica a singhiozzo delle scorte negli ultimi 18 mesi è anche emblematica di un più complesso e duraturo processo che negli ultimi decenni ha portato il sistema produttivo e distributivo ad anteporre l'efficienza alla resilienza.
Un esempio di scuola è la progressiva adozione della logica del just-in-time da parte dell'Occidente, mutuata dall'esperienza della Toyota sin dalla fine degli anni '70. Allo stesso modo, l'incessante ricerca dell'efficienza ha favorito la delocalizzazione di molte attività al di fuori dei confini nazionali (c.d. offshoring) con l'obiettivo di aumentare la capacità produttiva e ridurre il costo dei fattori.
Anche qui gli esempi abbondano, a partire da quello delle «maquiladoras», le fabbriche che sin da metà anni '60 tante aziende statunitensi hanno aperto in Messico (spesso in prossimità della frontiera) per poter avere accesso ad una manodopera a basso costo. Col tempo il fenomeno ha assunto dimensioni globali e ha contribuito alla progressiva concentrazione geografica nella produzione di numerosi beni. In uno studio del 2020 McKinsey riporta di aver trovato ben 180 prodotti nella supply chain per i quali un solo paese rappresenta almeno il 70% delle esportazioni globali.
Intente a ridurre i costi, molte società del Nord America e dell'Europa non hanno capito che la delocalizzazione comportava grossi rischi operativi (interruzione delle forniture provenienti da centri produttivi stabiliti all'estero) e strategici. La condivisione del know-how si è infatti progressivamente trasformata in perdita del know-how in favore di nuovi competitors che andavano costituendosi nei paesi in cui era stata trasferita la produzione.
L'industria dei semiconduttori (anche detti chip o circuiti elettronici integrati) è uno dei casi più rappresentativi dello spostamento della catena del valore tra diverse giurisdizioni, peraltro in un settore in forte crescita dato il continuo aumento delle filiere che utilizzano questi prodotti intermedi nei loro processi produttivi. L'evoluzione temporale della ripartizione delle esportazioni di questo bene tra i diversi paesi (cfr. Figura 4) è una buona proxy per analizzare questo fenomeno.
Negli ultimi vent'anni le esportazioni globali di circuiti integrati sono aumentate del 305% e in parallelo alcuni dei paesi che a inizio secolo detenevano le più alte quote di mercato hanno sperimentato un'erosione della loro fetta di export in favore di altri. In dettaglio, gli USA sono scesi dal 21% del 2001 al 6% del 2020, mentre nello stesso periodo il peso del Giappone è calato dall'11% al 4% e quello delle Filippine dal 6% al 3%. Di contro, paesi come Hong Kong, Cina, Taiwan e Corea del Sud hanno registrato un significativo incremento delle loro quote di mercato: in termini aggregati, queste quattro giurisdizioni sono balzate da una quota del 20% nel 2001 ad una del 61% nel 2020, dando un contributo determinante all'aumento della concentrazione geografica nell'industria dei semiconduttori.
Upstreamness ed «effetto-frusta»
Nonostante i fenomeni di lungo corso descritti sinora, la crisi delle supply chains intervenuta nell'ultimo anno e mezzo è stata esacerbata anche da alcune caratteristiche peculiari. Una di queste – come nota la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) nel suo ultimo bollettino – è che spesso i problemi di fornitura hanno interessato industrie upstream, cioè quelle che si trovano a monte di molte filiere. I semiconduttori, ancora una volta, sono un valido esempio ma anche le commodities primarie come petrolio, gas e metalli. Infatti, per motivi facilmente intuibili, i colli di bottiglia in queste industrie si ripercuotono su un elevato numero di industrie a valle. Ad esempio, si stima che il declino nell'output dovuto a restrizioni nell'offerta di commodities energetiche o di circuiti integrati sia in media da 3,5 a 4,5 volte la dimensione dell'impatto iniziale (a fronte di moltiplicatori intorno a 2 nelle industrie a valle).
Un altro fenomeno che ha contribuito ad esasperare le difficoltà nell'approvvigionamento di molti beni è stata, nel corso di quest'anno, la proliferazione degli ordini da parte di molti partecipanti alle catene dell'offerta nel tentativo di mettersi al riparo dai rischi di esaurimento delle scorte. Questa accumulazione precauzionale ha accentuato la scarsità di molti beni determinando quello che la BIS chiama «effetto-frusta» (bullwhip effect) perché – creando ulteriori tensioni nelle supply chains – si autoalimenta e va ad amplificare il problema iniziale. Proprio come le crisi di liquidità che si manifestano sui mercati finanziari.
Recenti segnali di miglioramento
Nell'ultimo periodo ci sono stati alcuni segnali di miglioramento nel funzionamento delle catene di fornitura. I prezzi di diverse materie prime (legname, materiali ferrosi e, di recente, anche gas e petrolio) stanno flettendo in misura più o meno significativa dopo i picchi dei mesi scorsi. Anche i costi di trasporto merci via mare hanno cominciato a ritracciare, come mostra (cfr. Figura 5) la flessione nei principali indici di costo del trasporto merci su navi container – il WCI Composite Index – e navi rinfusoliere, il Baltic Dry Index.
Segnali di allentamento della crisi emergono anche nella manifattura, soprattutto negli Stati Uniti col miglioramento di alcuni indicatori-chiave come quelli relativi agli ordini inevasi e ai tempi di consegna.
È però prematuro cantare vittoria: l'impressione è che i progressi siano lenti e riguardino per ora solo alcuni settori ed aree geografiche. Nell'ultima rilevazione relativa allo scorso ottobre, l'indice Bloomberg che misura le carenze dal lato dell'offerta è lievemente diminuito negli USA (dove comunque si mantiene su livelli vicini ai massimi degli ultimi 11 anni) ed ha invece continuato a salire – e, quindi, a peggiorare – sia nell'Area Euro che nel Regno Unito. Col Natale alle porte, è alquanto improbabile che possano esserci significativi miglioramenti prima di due-tre mesi o forse anche di più.
Reshoring e tecnologie digitali
Nel frattempo è interessante osservare che la pandemia ha riacceso di prepotenza i riflettori su tutte le iniziative che possano accrescere la resilienza delle supply chains. In particolare, l'esperienza fatta col Covid-19 – a partire dai problemi iniziali nell'approvvigionamento di farmaci, respiratori e dispositivi di protezione individuale – ha dato nuovo impulso alle strategie di reshoring che puntano a riportare la produzione manifatturiera e le catene di approvvigionamento dentro i confini nazionali. Iniziative di questo tipo erano partite prima del 2020, anche in risposta alle incertezze legate alla guerra dei dazi tra USA e Cina, e dallo scorso anno si stanno moltiplicando praticamente in tutte le economie avanzate. Negli USA, Biden ha modificato il Buy American Program per stimolare la produzione domestica ed ha commissionato un report sullo stato di salute delle supply chains in alcune industrie fondamentali, incluse quelle dei chip, dei farmaci e delle batterie elettriche. In Giappone, ad aprile 2020, sono stati allocati oltre $ 2 miliardi per supportare il reshoring di molte produzioni manifatturiere, mentre sul sito del Parlamento Europeo a marzo 2021 è stato pubblicato uno studio sulle opzioni disponibili per riportare la produzione nel territorio dell'UE in era post-Covid.
Inoltre, nella prospettiva di coniugare al meglio la resilienza col requisito dell'efficienza, sempre più industrie fanno un ricorso intensivo agli strumenti messi a disposizione dalle moderne tecnologie digitali (intelligenza artificiale, internet delle cose, tecnologie a registri distribuiti e lo stesso smart working) per ottimizzare i tempi di produzione e l'impiego dei fattori produttivi.
Le applicazioni possibili sono tra le più disparate. Un esempio tra i tanti è l'utilizzo di piattaforme basate sulla blockchain (la stessa su cui viaggiano le cripto-valute) per tracciare spedizioni in tutto il mondo. A fare da apripista in questo campo è stato il Global Shipping Business Network (GSBN), un consorzio non-profit fra i maggiori vettori mondiali tra cui la cinese COSCO e la tedesca Hapag-Lloyd. Pochi mesi fa la GSBN ha lanciato un prodotto che permette agli utenti di controllare sulla sua piattaforma decentralizzata i dati relativi alle loro spedizioni senza necessità di processi manuali o di scambio di documentazione cartacea e con notevole risparmio di tempo.
Insomma, la pandemia non ha solo messo a nudo le fragilità della globalizzazione ma ha anche spinto i sistemi di produzione e distribuzione delle varie industrie ad un intenso sfruttamento delle opportunità offerte dalla tecnologia. Del resto proprio la tecnologia (e, in particolar modo, quella digitale) è ormai il principale driver di aumento della produttività e alcuni analisti già preconizzano che essa rinvigorirà in futuro le pressioni deflattive. Nello scenario attuale, con la nuova fiammata dell'inflazione in molti paesi e i problemi nelle supply chains, queste profezie suonano alquanto singolari. Ma è comunque tempo di cominciare a rifletterci attentamente.
Marcello Minenna, Direttore Generale dell'Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli
@MarcelloMinenna
Le opinioni espresse sono strettamente personali
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