ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùIl caso

Svezia, come si è arrivati al processo ai manager per «crimini di guerra» in Sudan

Ian Lundin e Alexandre Schneiter, all’epoca presidente e Ad di una società petrolifera, sono accusati di «complicità» con i crimini di guerra perpetrati ai tempi della seconda guerra civile

di Alberto Magnani

Sudan, proseguono i combattimenti tra esercito e paramilitari

3' di lettura

Quando sono entrati in aula, il 5 settembre, hanno ribadito una linea già ascoltata in passato: «Abbiamo lavorato per il bene» del Sudan, negli anni più cupi della guerra civile. Dovranno dimostrarlo nella sede che li attendeva da tempo, il tribunale. Due dirigenti europei del settore petrolifero, lo svedese Ian Lundin e lo svizzero Alexandre Schneiter, sono sotto processo a Stoccolma con l’accusa di «complicità» nei crimini di guerra in Sudan, esercitata nella veste di vertici della compagnia petrolifera Lundin Oil (oggi si chiama Orrön Energy). Entrambi gli imputati negano qualsiasi coinvolgimento e hanno dichiarato di «non vedere l’ora» di spiegare la propria versione in aula.

I fatti risalgono al periodo fra il 1999 e il 2003, ai tempi del secondo conflitto civile del Paese, mentre l’indagine è scattata nel 2010 dopo la segnalazione comparsa in un report dell’organizzazione non governativa olandese Pax. Il processo dovrebbe concludersi nell’arco di due anni e mezzo, gettando luce su una vicenda che si trascina da oltre un decennio. Fra i 61 testimoni pronti a essere auditi compaiono ex dipendenti Lundin, personale Onu e Carl Bildt, ministro degli Esteri dal 2006 ma membro del board societario nel 2001. Uno degli anni sotto il faro dell’indagine.

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La «complicità» dei due dirigenti rispetto ai crimini di guerra

L’accusa è condotta dall’Unità nazionale contro il crimine organizzato della Svezia, un’agenzia nazionale che indaga su crimini analoghi a quelli ora imputati ai due manager. La tesi degli inquirenti si concentra sulla «complicità» dei vertici rispetto alle brutalità commesse dalle stesse autorità consultate e ingaggiate per assicurarsi un sito petrolifero nell’attuale Sud Sudan, diventato indipendente nel 2011.

L’incarico, prosegue l’accusa, sarebbe stato assegnato alle truppe governative nonostante - o proprio in ragione - del ricorso alla forza per reprimere il dissenso della popolazione locale. Quello che costituisce la complicità, spiegano gli inquirente, è che «loro (i due dirigenti, ndr) hanno fatto richiesta nonostante capissero, o in ogni caso fossero indifferenti, a come i militari e le milizie alleate conducessero la guerra in una maniera vietata dal diritto internazionale».

L’accordo siglato da Lundin e Schneiter, ai tempi presidente e amministratore delegato della società petrolifera, risale al 1997. Nel 1999 scattano le offensive delle forze governative per assicurarsi il controllo delle aree, con blitz che hanno spinto alla fuga centinaia di migliaia di persone e mietuto un numero indefinito di vittime. La lista dei «metodi» impiegati dalle truppe di Khartoum ha incluso, secondo l’accusa, bombardamenti, sparatorie e attacchi contro i civili, circostanza che spinge il pubblico ministero Henrik Attorps a classificare i blitz come crimini di guerra.

Il Sudan senza pace, dal Darfur alla guerra dei generali

Il Sudan ha sofferto un conflitto civile più che ventennale fra il 1983 e il 2005, lo stesso che ha fatto da sfondo ai fatti ora sotto indagine, “grazie” allo scontro fra il Nord a maggioranza islamica e il Sud a prevalenza cristiana.

Nel 2003 è scoppiato un tumulto separato nella regione meridionale del Darfur, degenerato fino a provocare stime di 200mila vittime e milioni di sfollati, con l’accusa di genocidio che incombe sul governo sudanese dell’ex presidente al-Bashir.

Vent’anni dopo, nel 2023, il Paese è ripiombato in quella che rischia di essere una nuova guerra civile, il conflitto fra le forze regolari del generale al-Burhan e i paramilitari delle Rapid Support Forces, sotto il comando del parigrado Mohamed Dagalo, detto «Hemetti»: un ex cammelliere che ha consolidato la sua reputazione come leader dei combattenti Janjaweed, una milizia affiancata al governo ai tempi della repressione nel Darfur.

Riproduzione riservata ©
  • Alberto MagnaniRedattore

    Luogo: Milano

    Lingue parlate: inglese, tedesco

    Argomenti: Lavoro, Unione europea, Africa

    Premi: Premio "Alimentiamo il nostro futuro, nutriamo il mondo. Verso Expo 2015" di Agrofarma Federchimica e Fondazione Veronesi; Premio giornalistico State Street, categoria "Innovation"

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