Tante aziende pensano di fare smart working, ma in realtà è solo telelavoro
La differenza non è solo banalmente linguistica, ma identifica modalità operative e inquadramento giuridico completamente diversi
di Paolo De Vincentiis *
3' di lettura
Dopo Coronavirus, il termine più usato in queste ultime settimane è probabilmente smart working. Se fino a poco tempo fa, per quanto sempre più diffusa, questa parola era propria del lessico del mondo economico e giuridico, oggi è diventata comune per tutti noi. La necessità di limitare al massimo gli spostamenti per arrestare il virus ha spinto un numero vastissimo di aziende a permettere ai loro dipendenti e collaboratori di lavorare dalle rispettive abitazioni. In fondo, è sufficiente un computer portatile e una connessione internet. Ma è proprio questo il punto. Lavorare da casa è davvero un sinonimo di smart working?
Questa risposta emergenziale delle aziende, infatti, non rispecchia la vera definizione di smart working, ma piuttosto quella di lavoro da remoto o telelavoro, per usare un termine in voga negli anni Novanta. La differenza tra i due concetti non si riduce banalmente all’origine linguistica del termine perché fanno riferimento a modalità operative molto distanti tra loro, sia a livello giuridico sia per quel che riguarda i processi aziendali.
Innanzitutto, il telelavoro è regolato da un contratto collettivo che disciplina il rapporto tra il datore e i dipendenti, mentre lo smart working si fonda su un accordo individuale tra i singoli, regolato da un contratto scritto. Nello specifico, il lavoro da remoto viene definito come una prestazione lavorativa fuori dal contesto aziendale dove la concezione logistica, quindi, risulta preponderante; nello smart working, invece, il lavoratore si trova inserito in una dimensione di tempo e spazio nuova e flessibile.
Il termine smart, che come sappiamo significa intelligente in lingua inglese, fa riferimento ad un paradigma lavorativo contemporaneo, in cui lo spazio fisico non è predefinito e l’orario è autoderminato. La qualità del lavoro e, di conseguenza, la retribuzione non sono valutate in base al tempo dedicato ad una particolare attività, ma piuttosto al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Questo significa che il lavoro agile è parte e fondamento di un processo organizzativo aziendale molto più ampio che vede la smaterializzazione delle fabbriche come risultato finale. La fabbrica 4.0, infatti, rappresenta uno scenario futuro dove intelligenza artificiale, robot, internet of things e altre tecnologie lavorano in sinergia all’interno di un processo complesso ma strutturato.
Questo cambio di paradigma così profondo è possibile solo se la cultura aziendale lo permette; cioè se è flessibile e pronta alla trasformazione. Una trasformazione che parte dalla dimensione della leadership manageriale e va a riscrivere il concetto di “subordinazione” che a essa consegue. A questo poi va aggiunta l’inevitabile resistenza al cambiamento che ogni genere di evoluzione organizzativa comporta, a cominciare dal ridimensionamento dell’importanza dello spazio fisico all’interno del quale si sviluppano i processi decisionali – ufficiali e non.
Emerge, quindi, la necessità di un nuovo rapporto di fiducia tra azienda e lavoratore che sottolinei le responsabilità di ciascuna parte. Tale relazione si può costruire solo alla luce di una comunicazione più trasparente che coinvolga il singolo dipendente e collaboratore attraverso una relazione diretta e personale con l’azienda.
Un aspetto importante, infatti, che è indispensabile e agisce da collante durante l'intero processo di cambiamento è quello della comunicazione interna. Se da una parte la tecnologia adottata in una fabbrica smart ha il compito di avvicinare chi è lontano, dall’altra indebolisce l’identificazione del lavoratore nella propria azienda. La dematerializzazione, quindi, richiede un impegno maggiore nel rafforzamento della coesione e creazione di engagement, in modo da incoraggiare la motivazione e la condivisione da parte dei dipendenti nei confronti degli obiettivi aziendali da raggiungere.
La crescente presenza di molteplici applicazioni innovative dimostra che la tecnologia è pronta a sostenere questo cambiamento e a dare risposta alle problematiche più complesse. Questo a dimostrazione del fatto che il ritardo è dovuto alle difficoltà e alla lentezza di una trasformazione di natura culturale.
Il salto generazionale richiesto è gravoso e la situazione emergenziale imposta dal Coronavirus sta innescando un’accelerazione dei tempi, ma dei cambiamenti cosi importanti e pervasivi hanno bisogno di tempo per potersi instaurare. Per questo motivo, oggi, non basta suggerire alle aziende di adottare soluzioni di smart working, ma è determinante informare e accrescere la consapevolezza su tutte le tematiche che sono parte di questo nuovo modello. In questo contesto entrano in gioco le agenzie per il lavoro e le società di formazione che accompagnano e supportano l’azienda nel passaggio e la aiutano a superare dei bias culturali radicati e consolidati.
Ora è difficile capire quale sia davvero l’impatto delle sollecitazioni esterne sull’effettiva accelerazione o meno di questo processo trasformativo; di scuro, lo scontro improvviso con la realtà rappresenta un’occasione per raccogliere e osservare una grande quantità di dati che ci permetterà di capire quali sono le limitazioni e dove bisogna agire per il miglioramento.
* Direttore Risorse Umane e Marketing del Gruppo SGB Humangest
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