Tassa minima globale: per l’Italia entrate potenziali da 2,7 miliardi
Il ministro Franco: «Ora l’ok al G20 di Venezia, per l’attuazione alcuni anni»
di Gianni Trovati
3' di lettura
Per l’Italia l’accordo di principio sulla minimun tax raggiunto al G7 di Londra rappresenta un successo politico e un’entrata potenziale da 2,7 miliardi di euro. Ma mentre il primo è sicuro, rafforzato dal fatto che il cambio di rotta statunitense alla base dell’intesa si è sviluppato nel corso della presidenza italiana del G20 e dovrebbe sfociare in un accordo più ampio nella riunione veneziana dell’8-11 luglio, il secondo è futuribile. E per essere tradotto in pratica ha bisogno di passaggi operativi complicati quanto essenziali sull’adesione effettiva dei diversi Paesi controinteressati, sul rapporto fra aliquote legali e aliquote reali e sui meccanismi di raccolta e distribuzione del deficit fiscale a carico delle multinazionali interessate.
Successo politico
Sabato è stato il giorno dei festeggiamenti politici. Il premier Mario Draghi parla di «passo storico», il commissario Ue Paolo Gentiloni lo definisce «accordo globale senza precedenti» e il ministro dell’Economia Daniele Franco si dice fiducioso sul fatto che a Venezia «si troverà un’intesa anche a livello di G20». Ma l’attuazione, ha riconosciuto Franco, richiederà «alcuni anni».
Gli effetti sui conti pubblici
A calcolare i possibili effetti sui conti pubblici dei diversi Paesi è l’Osservatorio fiscale europeo, l’organismo lanciato dalla commissione circa un anno fa e non a caso presentato ufficialmente il 1° giugno, alla vigilia dell’atteso accordo «storico» di Londra. Le preferenze dell’organismo, che ha sede a Parigi ed è diretto dall'economista francese Gabriel Zicman, sono orientate a un’aliquota del 25%, che offrirebbe un gettito più consistente.
Fissando al 15% il pavimento fiscale per le multinazionali, nei calcoli dell’organismo parigino l’Europa riuscirebbe a raccogliere 48,3 miliardi di euro, mentre negli Stati Uniti il conto si attesterebbe a 40,7. La fetta più ricca della torta fiscale europea spetterebbe al Belgio (10,5 miliardi), che però proprio sulle tasse ultraleggere per le multinazionali basa la propria politica fiscale aggressiva, finita più volte al centro delle accuse comunitarie, e con Olanda, Irlanda e altri Paesi alza gli ostacoli principali all’applicazione effettiva dell’accordo di ieri.
Il gettito per l’Italia
I 2,7 miliardi di quota italiana, poco più della metà rispetto ai 4,3 miliardi di pertinenza francese, si spiegano con alcune residue tassazioni agevolate incontrate in giro per il mondo dalle nostre (poche) multinazionali. Alcune sono società pubbliche, come l’Eni che opera in 72 Paesi e secondo l’Osservatorio ha pagato nel 2019 poco più di 4,73 miliardi di tasse e dovrebbe aggiungere un obolo da 171,5 milioni sull’altare della minimun tax, o l’Enel, che dovrebbe rafforzare con 356,3 milioni il proprio conto fiscale da 1,91 miliardi versato con le attività realizzate in 15 Paesi. L’altro settore interessato è quello delle banche, ma solo ai piani più alti, occupati da Intesa SanPaolo e Unicredit.
Il terreno più promettente, anche se privo al momento di cifre, è quello della riallocazione, in base alla geografia delle vendite e non delle sedi legali, per le tasse delle multinazionali digitali. Anche lì l’esperienza insegna che la strada dagli accordi politici alle regole operative è lunga. Ma anche che i tentativi unilaterali portati avanti a livello nazionale hanno un valore più simbolico che pratico. Lo dimostrano i 233 milioni del primo versamento della Digital Tax italiana: irrilevanti in un bilancio pubblico da 800 miliardi, e decisamente più modesti anche rispetto ai 780 milioni stimati dal Mef. Un tentativo che sarebbe archiviato in caso di decollo operativo dell’intesa di ieri.
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