Interventi

Tassare le multinazionali per combattere il riscaldamento globale (e il Covid)

Gli ultimi decenni hanno visto il progressivo alleggerimento del carico fiscale su alcune delle società più profittevoli del pianeta. È ora di invertire la tendenza

di Eva Joly

(EPA)

3' di lettura

«Un codice rosso per l’umanità». Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non avrebbe potuto riassumere meglio il brivido che attanaglia tutti al leggere il rapporto pubblicato dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) all’inizio di agosto. Disastri naturali, carenza d’acqua, esodi, malnutrizione, pandemie, estinzione di specie animali e vegetali: è scientificamente accertato che la vita sulla terra come la conosciamo sarà ineluttabilmente trasformata dal cambiamento climatico quando i bambini nati nel 2021 compiranno 30 anni.

Questo sta già accadendo, come mostrano chiaramente le catastrofiche inondazioni delle ultime settimane in Cina, Germania e Stati Uniti le foreste in fiamme dal Nord America alla Siberia e gli uragani sempre più devastanti nei Caraibi. Questo sarà ora il nostro destino, con conseguenze umane senza precedenti, anche nei Paesi ricchi. Se l’Europa ha ora una media di 3.000 morti all’anno dovuti a fenomeni metereologici estremi, la cifra salirà a 100mila entro il 2050 e a 150mila entro la fine del secolo se non si fa nulla.

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C’è ancora uno spiraglio di opportunità per evitare il peggio, limitando il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era preindustriale. È aperto solo a metà. Dobbiamo urgentemente decarbonizzare le nostre economie, porre fine alla deforestazione, ridurre il nostro consumo di energia e sviluppare massicciamente le energie rinnovabili. Resta il fatto che attuare finalmente quella che non dovrebbe più essere chiamata una “transizione” ma un “passaggio” energetico ha un costo. Non solo per finanziare i piani appena annunciati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea per dimezzare le loro emissioni di carbonio entro il 2030, ma anche per aiutare i Paesi in via di sviluppo, le cui economie sono devastate da Covid, a fare lo stesso.

Il denaro c’è, e dobbiamo cercarlo dove si trova: nei conti dei multimilionari nascosti nei paradisi fiscali e soprattutto in quelli delle multinazionali che, per decenni, non hanno pagato la loro giusta quota di tasse. Per questo l’amministrazione Biden ha annunciato che tasserà i profitti delle filiali estere delle multinazionali statunitensi con un’aliquota del 21% e ha invitato il mondo a fare lo stesso adottando una tassa minima globale sulle imprese.

L’iniziativa americana mira a porre fine ai paradisi fiscali e alla corsa al ribasso in termini di imposte sulle imprese. Questo è urgentemente necessario, dato che le aliquote fiscali nominali globali sui profitti aziendali sono scese da una media del 40% negli anni ’80 al 23% nel 2018. Questo significa meno risorse fiscali per finanziare la lotta contro il cambiamento climatico, i servizi pubblici come l’istruzione, la salute, le politiche per l’uguaglianza di genere in sostegno dell'occupazione. Al ritmo attuale, invece, la tassazione delle imprese potrebbe scendere a zero entro il 2052.

Rilanciati dalla decisione degli Stati Uniti, i negoziati per riformare il secolare sistema fiscale internazionale hanno appena raggiunto un primo passo, sotto l’egida dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), descritto dai suoi firmatari come “storico”. Tuttavia, non è questo il caso. In realtà, le nuove regole si applicherebbero a meno di 100 multinazionali in tutto il mondo, poiché riguardano solo quelle con un fatturato superiore a 20 miliardi di euro e margini di profitto globali superiori al 10%, ed esonerano il settore finanziario.

Queste risorse fiscali andranno quindi principalmente ai paesi ricchi. Peggio ancora, i Paesi dovrebbero impegnarsi ad abbandonare le tasse sulle aziende digitali, privandosi di risorse preziose. Questo spiega perché due grandi Paesi africani, Kenya e Nigeria, hanno rifiutato di approvare l’accordo. Ma non è tutto. L’accordo Ocse prevede l’adozione di una tassa globale con una soglia minima del 15 per cento. Questo è molto lontano dall’ambizione statunitense del 21% e ancora di più dal 25% che sostiene la Commissione Indipendente per la Riforma Fiscale Internazionale delle Imprese (Icrict), di cui sono membro insieme, tra gli altri, agli economisti Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e Gabriel Zucman.

Nonostante l’ineguaglianza della distribuzione proposta dall’Ocse, una tassazione minima globale del 25% porterebbe ai 38 Paesi più poveri quasi 17 miliardi di dollari in più all’anno rispetto a un tasso del 15 per cento. È abbastanza per vaccinare l’80% della loro popolazione contro il Covid-19.

Di nuovo, non tutto è perduto. I negoziati continuano fino a ottobre e un gruppo di Paesi ricchi (in particolare Stati Uniti e Germania) e Paesi in via di sviluppo (Argentina, Sudafrica e Indonesia) sono determinati a lottare per una riforma più equa. Una migliore tassazione delle multinazionali è anche una possibilità di evitare il riscaldamento globale con conseguenze devastanti per l’umanità. Il futuro è nelle nostre mani, ma il tempo è poco.

L’autrice è avvocata, membro della Commissione Indipendente per la riforma fiscale internazionale delle imprese (Icrict) e un ex membro del Parlamento europeo, dove è stata vicepresidente della Commissione d’inchiesta sul riciclaggio di denaro, l’evasione fiscale e la frode

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