finanza pubblica

Tassi negativi, croce e delizia della Germania

di Marcello Minenna

(Marka)

7' di lettura

Un terzo del debito pubblico tedesco (750 miliardi di euro) mostra rendimenti negativi, più negativi di quelli giapponesi: un investitore paga per il privilegio di prestare denaro fino a quindici anni e più al governo tedesco. Non è un caso ma un'anomalia determinata da vari fattori: l'assenza di condivisione dei rischi (risk-sharing) nell'Eurozona rende il titolo di Stato tedesco (Bund) non solo un bene rifugio (safe-haven) – in condizioni di incertezza sulle prospettive di crescita globale – ma anche l'unico titolo privo di rischio (risk free) a supporto dell'operatività del sistema finanziario dell'intera unione monetaria. Ne discende una domanda di titoli risk free pari a cinque volte l'offerta, come si evince esaminando alcune statistiche dell'Eurozona prima della crisi e dell'insorgere della patologia dello spread. Il Bund in sostanza è diventato merce assai preziosa. Non solo. A ben vedere un tasso negativo – richiamando alcune nozioni di finanza stocastica ed in particolare il teorema fondamentale dell'asset pricing – sottende uno scenario probabilistico in cui vi è un potenziale guadagno dal rimborso in una nuova valuta con valore più elevato rispetto all'euro. In altri termini, attraverso i tassi negativi, il mercato quota anche l'ipotesi di rottura dell'euro e conseguente rimborso del Bund in nuovi marchi che – perdendo la “zavorra” dei paesi della periferia dell'Eurozona – varranno più di quanto vale l'euro. Esattamente come quota, attraverso lo spread per i titoli di Stato italiani, il rischio che il debito pubblico italiano venga ridenominato e rimborsato in nuove lire svalutate rispetto all'euro.

In questo fragile contesto si sono inseriti gli stimoli monetari varati dalla BCE per contrastare la deflazione attraverso il taglio dei tassi e gli acquisti di titoli del Quantitative Easing (QE). Questi ultimi, data la regola della capital key – che sostanzialmente prevede la ripartizione degli acquisti in base alla dimensione dell'economia di ciascuno Stato rispetto all'Eurozona – hanno privilegiato proprio i Bund aumentandone ulteriormente la domanda e favorendo così l'effetto-scarsità che ha contribuito ad abbassarne i rendimenti.

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Per le finanze pubbliche tedesche questo è sicuramente un bene dal momento che in questo modo il debito pubblico si riduce automaticamente, come una palla di neve che si scioglie al sole. Dal 2014 (anno di introduzione dei tassi negativi sui depositi delle banche in BCE) al 2018 il rapporto debito/PIL della Germania si è ridotto in media di 3,6 punti l'anno, passando dal 75,3% al 60,9% e si stima che nel 2023 sarà in area 50%.

La discesa del rapporto debito/PIL è ovviamente dovuta anche all'ossessione teutonica per una politica fiscale improntata all'austerità, come efficacemente scandito dall'obiettivo schwarze null (letteralmente “zero nero”, ossia saldo di bilancio in pareggio o in avanzo) introdotto dal precedente ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Il contraltare di una spesa pubblica risicata è la penuria di investimenti pubblici sebbene il paese abbia grande bisogno di interventi ad ampio spettro (edilizia pubblica, istruzione, servizi digitali, etc.).

Finora il sotto-dimensionamento degli investimenti non ha penalizzato più di tanto l’economia tedesca grazie al suo modello di crescita export-driven che preferisce “nutrirsi” delle risorse messe a disposizione dalle politiche fiscali espansive degli altri paesi. I tassi negativi hanno contribuito al successo di questo modello supportando la competitività della manifattura tedesca che ha potuto finanziare la produzione a condizioni più vantaggiose dei suoi concorrenti, specie se appartenenti alla stessa area valutaria.

Col tempo lo spiazzamento strutturale dei propri competitors – anche per via, come detto, dei tassi molto bassi – ha permesso alla Germania di approntare un enorme apparato produttivo che però appare oggi ipertrofico rispetto all'indebolimento della domanda globale. La conferma viene dai dati sul calo degli ordini all’industria, sulla crescente accumulazione delle scorte (ai massimi degli ultimi 10 anni) e sull'allungamento dei tempi medi di giacenza aumentati di 6 giorni tra il 2017 e il 2018.

GERMANIA: ANDAMENTO DEGLI ORDINI ALLA MANIFATTURA E DELLE SCORTE

(Fonte: Bloomberg)

GERMANIA: ANDAMENTO DEGLI ORDINI ALLA MANIFATTURA E DELLE SCORTE

In questa prospettiva, la tregua siglata un mese fa ad Osaka tra USA e Cina – ammesso che duri – non è necessariamente una buona notizia per la Germania che, insieme al resto d'Europa, potrebbe diventare il prossimo bersaglio di Trump. Se il successo del mercantilismo tedesco dovesse essere messo in discussione, senza adeguate contromisure anche la credibilità del paese sui mercati finanziari internazionali ne risentirebbe come pure, a lungo andare, lo status di bene rifugio del Bund.
Meno probabile appare, almeno per il prossimo futuro, un abbandono dell'accomodamento monetario da parte della BCE: infatti è verosimile che la Lagarde si muoverà sul solco disegnato da Draghi che appena qualche giorno fa ha dichiarato che i tassi d'interesse di riferimento della politica monetaria resteranno invariati o addirittura più bassi almeno fino a metà 2020 e che non è esclusa la riapertura del QE. Entrambe mosse che porterebbero però ancor di più in territorio negativo i rendimenti sul debito tedesco.

In teoria quando la banca centrale abbassa i tassi lo fa per ridurre la convenienza per le banche a tenere la liquidità immobilizzata presso la banca centrale stessa: la ricerca di impieghi più remunerativi spingerà le banche ad aumentare il credito all'economia stimolando l'inflazione. Inoltre, se le banche ricevono interessi attivi bassi pagano anche interessi passivi molto bassi ai loro depositanti per i quali diventa perciò conveniente investirli altrove con ulteriore impulso alla crescita dei prezzi.

In pratica, queste dinamiche hanno funzionato favorendo una ripresa dell'inflazione e dell'economia reale ma solo per un tempo relativamente limitato. Già dal 2018 la mancanza di adeguati stimoli fiscali a supporto dell'azione della BCE e le preoccupazioni per il quadro internazionale hanno aumentato la propensione al risparmio di famiglie e imprese in ottica precauzionale. La conferma viene dal contributo decrescente della spesa finale del settore privato alla crescita del PIL tedesco: - 5 punti percentuali negli ultimi 10 anni.

La debolezza della domanda interna e, soprattutto, la perdita d’impulso di quella estera hanno prodotto i loro effetti sugli indicatori-chiave dell'economia tedesca: la produzione industriale è in rallentamento da inizio 2018, in sincrono con i primi segnali di indebolimento mostrati dal settore manifatturiero. Nel 2019 entrambi gli indicatori sono di fatto ulteriormente peggiorati e, addirittura, l'indice manifatturiero Purchasing Managers Index (PMI) – cioè l'indice composito che riflette la capacità di acquisizione di beni e servizi tenendo conto di nuovi ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte – della Germania è sceso sotto quello dell'intera Eurozona e questo mese ha toccato il minimo degli ultimi 7 anni.

Germania: produzione industriale e confronto del PMI manifatturiero tedesco con quello dell'area euro

NOTA: Un valore dell'indice PMI sotto 50 indica una contrazione del settore (Fonte: Bloomberg)

Germania: produzione industriale e confronto del PMI manifatturiero tedesco con quello dell'area euro

Attualmente il principale sostegno alla produzione viene dagli investimenti in costruzioni, ma anche questo dato nasconde delle criticità perché si inserisce in un più ampio quadro di rapida espansione del settore immobiliare. Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, tra il 2010 e il 2018 in termini reali in Germania i prezzi dell'edilizia residenziale sono aumentati del 25%, con un'accelerazione significativa nell'ultimo biennio.

Il rischio bolla immobiliare è dietro l'angolo ed è anch'esso un effetto dei tassi negativi a oltranza che, rendendo conveniente il ricorso all'indebitamento, trasferiscono ricchezza dai soggetti creditori a quelli debitori. La connessione tra i due fenomeni si apprezza immediatamente confrontando l'andamento dei rendimenti impliciti sui Bund a 2 anni con quello dei prezzi delle case esistenti. Nel periodo gennaio 2012-maggio 2019 la correlazione negativa tra le due serie è superiore all'85%.

GERMANIA: PREZZI EDILIZIA RESIDENZIALE E RENDIMENTI SUL BUND A CONFRONTO

(Fonte: Bloomberg)

GERMANIA: PREZZI EDILIZIA RESIDENZIALE E RENDIMENTI SUL BUND A CONFRONTO

Qualcosa di simile si riscontra anche in relazione al mercato azionario. Basta pensare che negli ultimi 5 anni il DAX, principale indice della borsa tedesca, è aumentato del 30%: una performance straordinaria in cui la disponibilità di abbondante liquidità a buon mercato e la ricerca di alternative d'investimento più redditizie di quelle del mercato obbligazionario hanno giocato un ruolo essenziale.
Di converso, in altre aree del sistema finanziario la profittabilità è oggi compromessa proprio per via del clima di protratti tassi negativi, a partire dal settore bancario: secondo la Bundesbank, nel 2017 il margine netto da interessi delle banche si è assottigliato del 6,2%, rappresentando la componente principale della contrazione del margine operativo netto degli istituti di credito tedeschi.

La rarefazione delle opportunità di profitto colpisce anche i fondi pensione, i fondi sanitari, le assicurazioni e persino alcuni hedge funds costretti, per motivi di regolamentazione prudenziale, a investire quote più o meno elevate della massa gestita in safe-assets come appunto i titoli di Stato tedeschi. A causa dei tassi negativi questi fondi rischiano cioè di perdere parte del capitale investito e/o di dover tagliare i benefici riconosciuti ai soggetti assicurati o ai sottoscrittori delle loro quote, senza contare che i gestori potrebbero cercare di recuperare redditività spostando parte del portafoglio su investimenti illiquidi e particolarmente rischiosi.

Lo stesso ordine di problemi si pone altresì per il sistema pensionistico e sanitario pubblico e, più in generale, per una larga parte di quelle che, nell'ambito del welfare State, sono le prestazioni future – spesso predefinite – a carico dello Stato (c.d. debito implicito), la cui sostenibilità prospettica dipende dalla capacità di accrescere o quantomeno preservare il capitale versato dai contribuenti.

In conclusione: i tassi così a lungo e così profondamente negativi potrebbero diventare a breve un serio problema per la Germania nonostante il beneficio in termini di abbattimento dello stock di debito pubblico. Fortunatamente non è difficile ipotizzare rimedi efficaci sia a livello domestico che dell'intera area euro. A livello nazionale il governo tedesco dovrebbe avviare politiche fiscali di stimolo alla domanda interna, a partire dal rilancio degli investimenti pubblici. A livello europeo, una misura adeguata, anche in vista della probabile riapertura del QE, sarebbe quella di rivedere le regole d'ingaggio di questo programma concentrando, come ho già avuto modo di suggerire, gli acquisti sui titoli dei paesi più indebitati. Si eviterebbe così di alimentare ulteriormente la domanda di Bund che condannerebbe la Germania a convivere ancora a lungo con tassi negativi su quasi tutte le scadenze (c.d. struttura a termine). Una simile misura rappresenterebbe inoltre una prima forma implicita di risk-sharing dato che le banche centrali nazionali sarebbero facoltizzate ad acquistare una quantità di debito pubblico del proprio Stato superiore alla rischiosità ritenuta compatibile con la dimensione dell'economia nazionale rispetto all'intera Eurozona come approssimata dalla capital key. Si riavvierebbe così una politica economica di condivisione dei rischi ed i mercati – come avvenne con la nascita dell'euro – opererebbero di conseguenza favorendo il riallineamento delle curve dei rendimenti dei diversi paesi della nostra area valutaria, eliminando così lo spread e ripristinando il principio che il presidente della BCE Jean-Claude Trichet ricordò all'indomani del fallimento di Lehman Brothers: un'unica valuta, un'unica struttura a termine dei tassi di interesse.

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