Roma

Tasso ritratto da Orazio

Bella scoperta. L’ovale sul monumento del poeta in Sant’Onofrio a Roma è stato tempo fa attribuito a Borgianni. Ora un sonetto di Tommaso Stigliani conferma la paternità al pittore

di Antonio Vannugli

Il monumento

4' di lettura

Nella celebre lettera scritta da Roma al fratello Carlo il 20 febbraio 1823, Giacomo Leopardi descriveva la solitaria passeggiata compiuta a Sant’Onofrio sul Gianicolo: «Venerdì 15 (...) fui a visitare il sepolcro del Tasso, e ci piansi». La «pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia» che tanto commosse Leopardi – cioè la lapide dedicata all’autore della Gerusalemme liberata dai frati nel 1601 e oggi esposta nelle stanze dell’attiguo museo, le stesse del convento dov’era morto il 25 aprile 1595 – non era però l’unico ricordo presente nella chiesa dove le sue spoglie avevano trovato sepoltura.

Monumento in controfacciata

Vi si aggiungeva infatti il semplice monumento senza data, tuttora esistente in controfacciata a sinistra della porta. Insieme al ritratto su lavagna che lo decora, quel sobrio ma duraturo omaggio postumo è ricordato per la prima volta, senza nomi, in un’anonima guida manoscritta di Roma, compilata tra il 1615 e il 1622 e conservata nella Biblioteca Casanatense; è solo grazie al Synthema Vetustatis dell’annalista romano Niccolò Angelo Caferri, stampato nel 1667, che lo sappiamo compiuto nel 1608. L’identità di chi lo fece realizzare, il cardinale ferrarese Bonifacio Bevilacqua, è invece già indicata nell’iscrizione, da lui stesso composta, che lo accompagna. In patria, i suoi genitori erano stati amici del Tasso e abbondano le testimonianze delle colte frequentazioni che Bevilacqua coltivò nella Roma del suo tempo, come dell’amore che professò per musica, pittura e belle lettere.

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Ritratto ovale

L’affascinante ritratto ovale (cm 67x47) nella memoria funebre vale a smentire la tradizione romantica di un Tasso dall’aspetto ispirato emaciato e sofferente. Anzi esso coincide in pieno sia con il ritratto letterario lasciatoci dal biografo Giovanni Battista Manso sia con la più sommaria descrizione che Torquato stesso, prigioniero in Sant’Anna, dette di sé scrivendo nel 1582 all’mico Curzio Ardizio: «percioch’io son grande e grosso, come sapete». Recando ben visibile in mano un volumetto in sedicesimo, il poeta ci guarda un po’ di sbieco, con un’espressione appena beffarda, quasi democritea.

Orazio Borgianni

Nel 2009, visitando Sant'Onofrio, mi avvidi che il ritrattino non poteva spettare ad altri che allo pseudo-caravaggesco romano Orazio Borgianni. Il taglio dell’immagine, l’impasto pittorico denso e carico alla veneziana, il riflesso della corona d’alloro sulla fronte, l’esibizione ostentata dell’attributo librario, l’humor sanguigno e l’ammiccante inclinazione in avanti della figura trovavano infatti inoppugnabili confronti nei pochi ritratti di Borgianni pervenutici, tutti databili attorno al 1610: dal Tommaso Laureti all’Autoritratto, entrambi presso l’Accademia di San Luca, all’ignoto Architetto della Pinacoteca di Monaco, forse il fratellastro Giulio Scalzo creatore dei Quattro Canti a Palermo.

Non sappiamo se Orazio, che era nato nel 1574, incontrò mai il Tasso prima di partire per la Spagna, dove si recò in cerca di fortuna tra il 1597 e il 1600 e da dove sarebbe tornato, vedovo e disilluso, tra il 1605 e il 1606. È però certo che al rientro a Roma si inserì immediatamente sia nella comunità artistica, stringendo amicizia con il veneziano Carlo Saraceni e condividendone cordate e diatribe in seno all’Accademia di San Luca, sia in quella letteraria, figurando proprio nel 1608 tra i membri dell’erudita Accademia degli Umoristi. Fondata nel 1600 per iniziativa del nobile Paolo Mancini, nonno delle nipoti del cardinale Mazzarino, al tempo della sua fioritura essa annoverò con Tassoni Marino e Guarini – quest’ultimo destinatario di un famoso ritratto perduto del nostro Borgianni – il fiore della poesia barocca italiana. Né Orazio fu l’unico artista ad esservi ammesso: nelle sue file l’associazione poté infatti contare anche sul titolare della principale bottega attiva in città al volgere del secolo, il Cavalier d’Arpino. Escluso lui, al tempo ancora oberato di incarichi, a chi meglio di Borgianni il cardinale Bevilacqua avrebbe potuto rivolgersi per la pietosa incombenza?

Avesse o no conosciuto il Tasso, dopo tanti anni il pittore non dovette trovare miglior soluzione che ispirarsi, non foss’altro per rinfrescarsi la memoria, a una delle sue verae effigies in circolazione, se non al ritrattino inciso che correda, già laureato, il frontespizio della Conquistata dedicata nel 1593 all’ultimo mecenate e poi erede del poeta, quel cardinal nipote Cinzio Aldobrandini che presto sarebbe divenuto uno dei protettori di Bevilacqua in curia. Borgianni invertì la direzione dell’effigie per rivolgerne lo sguardo verso il centro della navata invece che verso la parete, e per ridar vita al defunto ne inclinò l’eretta e impettita postura.

L’entusiasmo per la scoperta indusse a parlarne in pubblico appena se ne presentò l’occasione: una conferenza che nel marzo 2010, su invito di Silvia Danesi Squarzina, si tenne alla Sapienza agli studenti del dottorato in Storia dell’arte e a cui intervennero diversi colleghi e, ben più numerosi, gli allievi dei corsi di laurea e specializzazione. Conferenza che si ebbe l’onore di ripetere nel 2013 alle Università di Palermo e per Stranieri di Perugia, qui all’interno di un ciclo il cui programma è tuttora consultabile in rete.

Ma l’attribuzione, già da sé incontrovertibile, è in realtà un’aggiunta documentata ai circa 85 numeri che formano l’attuale catalogo di Borgianni. La prova si cela in un libro pubblicato nel 1623 ed è giunto il momento di renderla nota, senza continuare a rinviarne la diffusione alla monografia che si ha in preparazione sul pittore. A offrirla è Tommaso Stigliani, poeta che ebbe rapporti conflittuali tanto con Marino quanto con gli Umoristi in generale ed è noto anche per il ritratto che gli disegnò e nel 1625 gli incise Ottavio Leoni, principe del genere nella Roma di primo Seicento. Nella riedizione accresciuta del suo Canzoniero, Stigliani incluse ben cinque sonetti «In morte del Signor Torquato Tasso», l’ultimo dei quali è appunto dedicato «Al Signor’Orazio Borgianni», anch’egli ormai defunto da tempo. Il testo parla da sé: «Quand’io pensava in riveder del morto/ Tasso l’ossa famose al Tebro in lito/ Lagrimarlo non pur di vita uscito/ Ma in troppo vil sepolcro ascoso à torto:// Trovo che l’anno in sen chiuso, ed absorto/ Marmi illustri, o Borgianni, in alto sito,/ Ove tù l’ai dipinto, anzi scolpito,/ Sì ch’egli è per tua man quasi risorto.// Anzi è in tutto rinato, e sì vivace,/ Che quanto il corpo ver mi da dolore,/ Tanto il finto mi dà conforto, e pace.// Dunque appiè vi s’incida un tal tenore./ Quì duo Tassi, un’estinto, e un vivo giace./ Ma l’estinto stà dentro, e’l vivo è fuore».

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