giorno del ringraziamento

Thanksgiving Day, America sei un mito

di Luigi Sampietro

4' di lettura

Tutto è pronto in America per la grande festa. Donald Trump come da tradizione ha graziato due tacchini mentre migliaia di altri sono pronti per essere infornati. L'ultimo giovedì di novembre l'America festeggia il Thanksgiving Day, il Giorno del Ringraziamento per il raccolto avuto durante l'anno. Tutto ebbe inizio nel 1621, a Plymouth in Massachusetts. I padri pellegrini giunti con la nave Mayflower sulle coste americane dopo le persecuzioni per le idee religiose integraliste in Europa decisero di ringraziare il Signore per quanto era stato loro concesso dai campi.

Una generazione dopo l'altra l'America è stata un mito, e non per modo di dire ma nel senso proprio della parola. Un luogo, al tempo dei miei bisnonni, in cui gli edifici erano alti come montagne e le strade più lunghe della fame che gli emigranti si lasciavano alle spalle. Un grande Paese a cui si arrivava viaggiando a bordo di uno “stima” – ovvero steamer, o piroscafo, come scrive Giovanni Pascoli nei Primi poemetti – e che induceva inevitabilmente in chi restava a terra l'immagine di un eldorado. “La Mèrica”.
Nella prosa sommaria delle missive che gli emigranti mandavano alla famiglia, la lingua sacrale (mythos, appunto) faceva aggio sulla parlata dell'uso quotidiano. L'invio di una lettera era una circostanza solenne che escludeva quasi sempre la menzione di disagi e sacrifici. E in chi riceveva quei messaggi, il fatto stesso che fossero formulati per iscritto incuteva soggezione. Avvolgeva i parenti lontani in una luce di favola.
Un mito l'America continua a esserlo anche in tempi successivi, di mano in mano che giunge notizia delle nuove grandi invenzioni. Tutta una serie di aggeggi, strumenti e macchinari che sono un inno all'intelligenza pragmatica di un popolo giovane e privo di remore, il cui motto si può racchiudere in due parole: “Why not?”. La base di ogni iniziativa.

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È dall'America che, un decennio dopo l'altro, arriva buona parte dei marchingegni con i quali il mondo intero accede al “futuro prossimo venturo”. Ne cito alcuni alla rinfusa. L'automobile. L'aeroplano. Il carro frigorifero. La spilla di sicurezza. La cerniera lampo. La macchina per cucire. La lavastoviglie. Il nylon. Il rasoio elettrico. Gli apparecchi fotografici portatili. La birra in lattina. La televisione. Le patatine fritte. La pillola contraccettiva. Il personal computer. I satelliti artificiali.
E chi più ne ha più ne metta, comprese quelle invenzioni che negli Stati Uniti sono state solo perfezionate e rese accessibili a buon mercato. Per cui, lasciando da parte le armi di ogni calibro e portata – e poi la bomba atomica – aggiungerei, anche se con una certa cautela per risparmiarmi i rimbrotti di chi ne sa più di me: il telefono, il frigorifero, la macchina per cucire e gli hamburger. Infine, sottovoce, quasi bisbigliando per non suscitare un vespaio, ci metterei anche il cinematografo, proprio perché è Hollywood, più che i Lumière, a essersi fatta largo nell'immaginario del mondo intero. E non tralascio il juke-box e i blue jeans, che nei romanzi del primo dopoguerra venivano tradotti come “organetto a gettoni” e “calzoni di tela turchina” e che, insieme alla coca-cola e al chewing-gum, sono diventati le icone famigliari di una quotidianità senza frontiere.
È però nel campo della cultura e dello spettacolo che il mito dell'America trionfa. Con il jazz e con il blues, i gospel e gli spiritual, il fox-trot e il charleston, il boogie-woogie e il rock'n'roll. La radio, i fumetti e i libri gialli. I quiz di Mike Bongiorno, l'espressionismo astratto e la pop art. E qui, avvicinandoci ai nostri tempi, direi che ci possiamo fermare. Perché i miti parlano sì di cose vere ma sono contornati da un alone che si dissolve quando li si guarda da vicino. Non appartengono tanto al dominio della nostalgia quanto a quello del sogno a occhi aperti, e tuttavia non sopportano né l'ispezione né l'analisi. Hanno ragioni profonde che sono materia di fede. Ed è nel buio delle sale cinematografiche che l'America, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, fa le sue grandi conquiste. Si presenta e si impone come un Altrove in cui tutti possono liberamente passeggiare almeno per un paio d'ore. Identificarsi con i suoi eroi. I quali, bisogna aggiungere, appartengono sempre a un mondo privo di antefatti, in cui l'individuo rappresenta solo se stesso. Non ha un passato e non gode di protezioni. Importa poco da dove arrivi e conta solo per ciò che mostra di saper fare. È un personaggio idealizzato che si muove a altezze irraggiungibili da qualsiasi ricostruzione sociologica dei fatti perché è figlio di una cultura – di una letteratura – che, al suo meglio, i propri eroi li ha sempre costruiti dal di dentro. Non per dimostrare una tesi ma per affermare la loro dignità al cospetto della coscienza di chi li guarda. È perlopiù un solitario l'eroe di quei film. Il grande mito dell'America, al di là di ogni teoria e di ogni congettura, è in verità il mito dell'individuo qualunque. Meglio: dell'individuo medio che in quanto tale merita e richiede il massimo rispetto delle proprie libertà e del proprio modo di essere. Indipendentemente da come veste e da come si presenta: da chi lo sostiene e da chi lo rappresenta. Anche se l'America è vertiginosamente cambiata nell'ultimo mezzo secolo, la sua anima nascosta – sviata, tradita, corrotta, sbeffeggiata e contraffatta – è quella di certi film di Frank Capra, come Mr. Smith va a Washington (1939) e La vita è meravigliosa (1946). Il suo vero mito non è l'innocenza, ma la virtù riconquistata. La redenzione. Non corrisponde di certo alla realtà ma è la sua stella polare.

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