Festival di Cannes

«The Velvet Underground», a Cannes l'appassionante documentario di Todd Haynes

Sulla Croisette è stato presentato il documentario che il regista americano ha dedicato alla storica band. In concorso si segnala «Lingui» del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun

di Andrea Chimento

«The Velvet Underground»,

2' di lettura

I Velvet Underground secondo Todd Haynes: il regista americano ha realizzato un documentario sulla storica band che ha rivoluzionato la scena rock tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta.

«The Velvet Underground»,

Presentato fuori concorso, il film, che si chiama semplicemente «The Velvet Underground», è un ritratto appassionante e sentito con cui Haynes torna alla forma documentaristica, che aveva soltanto sfiorato in passato con il televisivo «Six by Sondheim».

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L'ambito musicale, invece, è da sempre uno degli elementi principali del cinema dell'autore di «Lontano dal paradiso»: basti pensare a «Velvet Goldmine» (che velatamente si ispira alla vita di David Bowie) e «Io non sono qui», magnifico (anti)biopic che decostruisce in maniera profonda e originalissima la carriera di Bob Dylan.

Un tuffo nel passato

È un bel tuffo nel passato questo documentario, realizzato con cura e perfetto per gli appassionati della Swinging London, della musica sperimentale e del sound unico della band segnata dall'incontro con Andy Warhol, che ha dato vita, nel 1967, a uno degli album più importanti della storia, «The Velvet Underground & Nico».

Seppur senza particolari scossoni artistici e con una forma fin troppo didascalica, Todd Haynes fa un lavoro rigoroso, mostrando come il gruppo sia diventato un riferimento culturale, pur rappresentando un ventaglio infinito di contraddizioni. Dalle interviste a protagonisti dell'epoca a una ricca collezione di registrazioni, performance sul palco e collegamenti con altre opere d'arte sperimentali, il documentario riesce sempre a interessare, nonostante i pochi guizzi, suscitando nello spettatore anche un filo di malinconia per un'epoca irripetibile, sia per chi ha vissuto quegli anni sia per chi li ha visti soltanto sugli schermi o ascoltati tramite le canzoni del tempo.

«Lingui»

In concorso ha invece trovato spazio «Lingui», nuovo film del regista ciadiano Mahamat-Saleh Haroun.

«Lingui»

Al centro della trama c'è Amina, che vive da sola con la sua unica figlia quindicenne, Maria. L'esistenza già difficile delle due donne si complica ulteriormente quando la ragazza rimane incinta: Maria, però, non vuole questa gravidanza e in un paese in cui l'aborto non è solo condannato dalla religione, ma anche dalla legge, Amina si troverà ad affrontare una battaglia che sembra persa in partenza.

Dramma al femminile dalle forti valenze politiche, «Lingui» è un prodotto che cerca non solo di raccontare l'arretratezza di un paese come il Ciad, ma anche di riflettere sui legami umani (il titolo fa riferimento proprio a questo) e sulla condizione delle donne in Africa.

«Lingui»

Essenziale nella forma e nella sceneggiatura, il film risulta purtroppo eccessivamente scolastico in alcuni passaggi, anche se a tratti incisivo grazie al realismo della messinscena e alla forza delle immagini proposte.

Dopo alcuni film poco riusciti, si ritrova almeno in parte il talento che Mahamat-Saleh Haroun aveva dimostrato con quello che rimane ancora oggi il suo lavoro migliore, «Daratt – La stagione del perdono» del 2006.

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