Thomas Cook, un fallimento che ricorda Parmalat
I 21mila dipendenti della più grande compagnia di viaggi al mondo, miseramente fallita nel giro di una notte, così come i 150mila turisti inglesi lasciati a terra in giro per il mondo, non hanno probabilmente mai sentito parlare di Parmalat. Ma il crack del tour operator assomiglia al dissesto del latte italiano
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Si scrive Thomas Cook, ma si legge Parmalat. I 21mila dipendenti della più grande compagnia di viaggi al mondo, miseramente fallita nel giro di una notte, così come i 150mila turisti inglesi lasciati a terra in giro per il mondo, non hanno probabilmente mai sentito parlare di Collecchio. Ma più passano i giorni e più il crack del tour operator assomiglia al dissesto del latte italiano: Parmalat fece un buco da 14 miliardi di euro. Thomas Cook veleggia attorno al miliardo. Briciole rispetto all’ex impero di Calisto Tanzi, ma sono le modalità ad accomunare le due aziende: troppi debiti, manager scriteriati, sprechi. E pure operazioni controverse. Le prime tre colpe già legavano Leicester, sede di Thomas Cook, a Collecchio. Ora per Thomas Cook spuntano anche consulenze milionarie poco prima del fallimento. E il cerchio si chiude.
Parcelle milionarie
Poco prima di morire, dopo 142 anni di gloriosa storia, che ne facevano la compagnia viaggi più antica del mondo, la società guidata dal manager svizzero Peter Fankhauser, finito sotto accusa per lo stipendio multimilionario, ha sborsato 20 milioni di sterline a consulenti, che non sono riusciti a fare quello per cui erano stati ingaggiati: salvare l’azienda.
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A beneficiare delle pingui parcelle, una lunga lista di società, come rivelato dal Financial Times: a partire dalle cosiddette Big Four, i quattro big delle società di revisione (PWC, E&Y, Kpmg e Deloitte). Più 20 studi legali, il piano assicurativo Atol, che copre i turisti in caso di problemi, e la stessa Aviazione Civile che aveva ingaggiato la Alvarez&Marsal, la più nota società di salvataggi aziendali: tutti profumatamente remunerati.
Lo spettro della bancarotta preferenziale
A pagare il conto è stata Thomas Cook: mentre stava per esalare l’ultimo respiro ha sborsato 20 milioni di sterline a consulenti che in alcuni casi lavoravano pure per terze parti. Il ministro Andrea Leadsome ha già annunciato un’inchiesta pubblica: se fossero confermate le mega parcelle in uno stato pre-fallimentare, per Thomas Cook si aprirebbero le porte della bancarotta preferenziale, ossia che qualcuno avrebbe guadagnato a scapito di altri.
Rachel Reeves, parlamentare Labour, ha condannato lo stuolo di consulenti e più in generale il ruolo delle società di revisione contabile, i cui interessi contrastano con quelli degli azionisti, clienti e dipendenti delle aziende. E il pensiero corre alla Grant Thornton, la società che approvava i bilanci della Parmalat.
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Una nuova Dunkerque
Thomas Cook è la nuova Dunkerque della Gran Bretagna. Il fallimento della storica agenzia di viaggi lascia a terra, e sparsi sui 4 continenti, circa 150mila turisti inglesi (ma fortunatamente nessun italiano). È in corso di rimpatrio un numero di persone pari a un’intera città di provincia, è il più grosso rientro di cittadini dalla Seconda Guerra Mondiale. Il costo totale del crack è monstre: 600 milioni di sterline tra rimpatri e rimborsi-risarcimenti per chi ha già prenotato e impatto fallimento. Ma il costo finale già veleggia verso il miliardo.
Troppi debiti
Schiacciata da un debito gigantesco di 1,7 miliardi, Thomas Cook è saltata nonostante un piano di salvataggio da 1 miliardo che era in rampa di lancio. E nemmeno i cinesi, oggi i “cavalieri bianchi” di mezzo mondo che corrono a comprare aziende ovunque, sono riusciti nel miracolo: il colosso alberghiero-immobiliare Fosun, che in Italia ha comprato l’ex palazzo Unicredit di Piazza Cordusio, era entrato nell’azionariato nel 2015 ed era pronto a versare circa 700 milioni diventando il proprietario del tour operator.
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Un fallimento beffa
È un fallimento beffa per il Paese, e soprattutto per i taxpayers di Sua Maestà: riportare a casa i 150mila turisti costerà molto di più che se si fosse salvata la compagnia con i soldi pubblici: Thomas Cook è andata in bancarotta per “soli” 200 milioni. Le banche coinvolte nel salvataggio volevano un ulteriore sforzo finanziario, per garantire a Thomas Cook di sopravvivere nei mesi invernali, quando le prenotazioni calano drasticamente. Ma, paradosso, un salvataggio di Stato, ventilato nel convulso fine-settimana ma scartato per non far pagare al contribuente il conto di un’azienda privata, sarebbe costato molto meno che ora organizzare il rientro di migliaia di cittadini inglesi. Senza contare i costi indiretti sull’indotto: alberghi vuoti, località turistiche senza visitatori.
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