Tim, Genish: «Forzatura su cui serve un’assemblea, chiunque ha il 5% può richiederla»
di Antonella Olivieri
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Amos Genish è ancora amareggiato per il modo in cui è stato accompagnato alla porta in Telecom. Proprio quando era in Asia per stringere importanti accordi e i suoi interlocutori improvvisamente non sapevano più chi rappresentasse. Una situazione incresciosa. In questa intervista ripercorre le tappe della storia - terminata con la revoca delle sue deleghe di ad in Telecom Italia martedì scorso - così come l’ha vissuta sulla sua pelle. Il manager israeliano è ancora convinto che il break-up del gruppo sarebbe una follia, perchè priverebbe l’Italia dell’incumbent nazionale. Ritiene che il percorso che ha portato alla sua defenestrazione non possa ritenersi del tutto corretto, nè trasparente. E che spetti all’assemblea di tutti gli azionisti giudicare se il cambio repentino alla guida di Telecom e l’inevitabile cambio di rotta nella strategia che ne seguirà, in particolare per quanto riguarda la rete, sia il meglio per il futuro del gruppo.
Allora, guardiamo avanti?
Se mi permette, occorre prima invece fare un passo indietro. Per tornare alla primavera quando è entrato in scena Elliott. Il progetto della sua campagna attivista suggeriva il break-up di Telecom Italia, come strumento per creare valore. Ad ogni modo si proponeva di rivoluzionare il perimetro del gruppo.
C’è stato un incontro a Londra, di cui la stampa ha scritto, dove lei si è confrontato su questo tema con gli esponenti di Elliott che curano il dossier.
Abbiamo contestato la sua posizione. La ServiceCo, la società dei servizi separata dalla rete, non produrrebbe un cash flow di 1,7 miliardi, come stimano loro, ma molto meno.
E quindi?
Quindi si è arrivati al 30 aprile, quando Elliott - con un comunicato stampa - ha affermato che non c’era da parte loro un piano alternativo, e che mi appoggiavano pienamente.
Il 24 aprile la revoca di quasi tutti gli amministratori espressi da Vivendi, inserita all’ordine del giorno dal collegio sindacale su richiesta di Elliott, non era stata ammessa dopo il ricorso d'urgenza del cda al giudice. E si è arrivati quindi a nominare il nuovo consiglio all'assemblea del 4 maggio.
Molti investitori volevano sentirsi dire che io sarei rimasto, se me lo avessero chiesto, chiunque avesse prevalso. E il fatto che la mia cooptazione in consiglio sia stata approvata dall'assemblea di aprile anche da Elliott con il 98% del capitale presente, li ha aiutati a conquistare la maggioranza del board.
Lei però era il capofila della lista Vivendi finita in minoranza.
Terminata l’assemblea del 4 maggio ero tentato di dimettermi. Ricevetti una telefonata da New York molto tardi in serata. Paul Singer mi rassicurò che non ci sarebbe stata alcuna interferenza sul mio lavoro. Mi feci convincere a restare. Col senno di poi, posso dire che sono stato ingenuo a pensare che un hedge fund attivista potesse cambiare pelle. Da lì sono iniziati sei mesi di turbolenza nei quali non ho avuto un singolo giorno di tregua.
Il consiglio però non le ha mai bocciato niente.
Formalmente è vero, ma per permettere al management di concentrarsi sul business, nonostante tutto il rumore di fondo che rimbalzava sui media, mi sarei aspettato un po' più di sostegno dal board. Invece sono stato limitato anche nella scelta dei miei collaboratori, i cambiamenti che ritenevo opportuni sono stati accantonati all'insegna della stabilità. In aggiunta, gli investitori avevano votato per un presidente non esecutivo, ma Fulvio Conti è sempre stato presente in azienda e teneva riunioni, interne ed esterne, anche in mia assenza. Ma c'è di più, a partire da giugno hanno cominciato a circolare voci insistenti sulla mia fuoriuscita. Ne avevo parlato con il presidente, perché queste voci avevano l'effetto di delegittimarmi all'interno e all'esterno dell'azienda.
Mi risulta, anche che lei si sia lamentato anche con il lead independent director, Dante Roscini.
La verità è che malgrado le mie rimostranze, in seguito il board non mai ha ritenuto di supportarmi pubblicamente.
Andiamo avanti.
A inizio settembre una persona vicina a Elliott mi invitò a pranzo per darmi un suggerimento “amichevole”. A mio giudizio, mi disse, hai solo due opzioni: o ti dimetti e proteggi la tua reputazione o inizi ad accelerare la vendita di asset.
Che era poi in linea con quello che Elliott aveva dichiarato nel manifesto.
Risposi che non ero un tipo arrendevole e che non credevo saggio di vendere asset, che non erano nel piano strategico e non ero stato votato dagli azionisti per fare un break-up del gruppo e che un cambio di strategia avrebbe dovuto passare da una nuova assemblea. Poi sono iniziate pressioni via via crescenti affinchè accelerassi il deleverage di Telecom (la riduzione del debito, ndr) con la cessione di asset.
Si è arrivati però all’impairment del terzo trimestre, senza che fosse completata alcuna dismissione.
Dico solo di fare riferimento al comunicato emesso quel giorno in cui si dice chiaramente che la decisione non tiene conto del recovery plan che avrei presentato al consiglio successivo del 6 dicembre. In ogni caso la performance della società nei nove mesi è stata solida e significativamente migliore di quella registrata dai nostri concorrenti come Vodafone e Wind.
Da allora sono cominciate le voci che il Presidente stesse discutendo delle sue dimissioni.
Dopo il board dell’8 novembre ho avvicinato il presidente dicendo che avevo informazioni che lui stava muovendosi per cercare un nuovo ceo. Gli ho chiesto se queste fossero le sue intenzioni e se avesse la maggioranza del consiglio. Lui mi ha risposto di sì e allora gli ho comunicato che mi sarei dimesso al board successivo del 6 dicembre, dopo la presentazione del budget, in modo da minimizzare gli effetti negativi sull’operatività dell’azienda. Lui disse che era d’accordo. Sono quindi partito per l'Asia per stringere accordi importanti con partner tecnologici, convinto che non sarebbe successo niente fino al mio ritorno. Sabato 10 novembre il presidente mi confermò che non era stato convocato alcun consiglio straordinario.
E invece martedì 13 le hanno tolto le deleghe. Si è fatto un'idea del perché di questa accelerazione?
Ho trovato questa decisione per lo meno inusuale, una decisione che mi ha molto sorpreso. Sto ancora aspettando una spiegazione perchè si siano comportati in questa maniera, non allineata con la best practise di corporate governance. Sono ancora scioccato dal comportamento del presidente che non è da gentleman.
È certo comunque che sulla rete, Elliott la pensa diversamente.
Elliott ha il tipico approccio finanziario da hedge fund, come si può vedere dal manifesto, mentre io ho un approccio industriale, una visione di lungo termine. Il 5G (la telefonia mobile di quinta generazione, che sarà realtà nei prossimi anni, ndr) richiede spettro, torri e fibra. Vendere Inwitt e cedere il controllo della rete farebbe mancare le opportunità che si aprono con il 5G e aggiungo che l’Italia rischia di perdere un incumbent forte e competitivo. E l’Italia sarebbe il primo Paese europeo a permettere che ciò succeda.
Ha parlato con Vincent Bolloré di questa situazione?
Ho parlato con gli altri quattro membri del board della lista Vivendi, tra i quali c’è Arnaud de Puyfontaine. È lui l’interlocutore che rappresenta Vivendi in questa fase.
E con Cdp ha parlato?
No.
C’è sconcerto generale per la situazione che si è venuta a creare in Telecom.
Credo che molti investitori siano preoccupati perchè non hanno idea di quale sia il nuovo piano strategico che presenterà il nuovo management e pensano che un tale cambio radicale nella guida della società e del piano debba essere deciso dall’assemblea.
Vivendi chiederà l’assemblea?
La può chiedere qualsiasi investitore che abbia il 5%.
Questa è la sua ricostruzione dei fatti: siamo sicuri che non sia influenzata dalla sua posizione contrattuale non ancora risolta con l’azienda?
Questo non è un tema. Il mio contratto è pubblico e le sue condizioni sono in linea con gli standard della compagnia, niente a che vedere con le buoneuscite dei miei predecessori.
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