venezia

Tintoretto, un gigante di bella Maniera

di Marco Bona Castellotti

. Tintoretto, «Susanna e i vecchioni» (1555 ca), Vienna, Kunsthistorisches Museum

4' di lettura

Nel suo bel libro sulla Maniera, Giuliano Briganti sottolinea, a proposito di Jacopo Robusti detto il Tintoretto (1519-l594), «che non fu mai toccato dal dramma più intimo, dalla esasperazione lucida, dalla sottile implicazione intellettuale» del manierismo toscano. La rivalutazione del Tintoretto precede quella del manierismo veneziano cui, nel 1981, venne dedicata una mostra memorabile, curata da Rodolfo Pallucchini. Rimangono lapidari nella fortuna critica del pittore veneziano i giudizi di John Ruskin, che scrisse come «la mente del Tintoretto, incomparabilmente più profonda e severa di quella di Tiziano, ammanta della solennità che gli è propria i temi religiosi e talvolta si lascia cogliere dalla devozione», e di Henry James, secondo il quale il Tintoretto della chiesa di San Cassiano a Venezia, a paragone di Tiziano «poeta vigoroso», fu «quasi un profeta».

La vastissima opera del Robusti rientra pressoché totalmente nella poetica del manierismo, protesa come è verso le espressioni di una forza fisica e spirituale, mai di uno spiritualismo astratto, e verso la manifestazione di quanto l’effetto scenografico possa provocare un coinvolgimento emotivo.

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Visitando le due belle mostre veneziane all’Accademia e in Palazzo Ducale (questa curata da Robert Echols e Frederick Ilchman con la direzione scientifica di Gabriella Belli), che celebrano il quinto centenario della nascita del pittore e che saranno parzialmente trasferite a Washington, il pubblico viene messo nelle condizioni di scoprire o riscoprire il grande Tintoretto. Meglio ancora se, terminata il giro, seguirà un itinerario in città, che se fosse capillare risulterebbe sfiancante, ma se volesse essere selettivo non potrebbe saltare almeno due tappe d’obbligo: la Scuola Grande di San Rocco e la chiesa della Madonna dell’Orto.

L’immane produzione di dipinti devoti tintoretteschi raramente risente di un timbro devozionale nel senso querulo della parola. Le ante dell’organo alla Madonna dell’orto, con l’Apparizione della croce a San Pietro e la Decollazione di San Paolo sono evidentemente improntate all’affermazione della forza; così gli episodi della vita di Cristo nella Scuola di San Rocco o il Miracolo dello Schiavo. Nella mostra di Palazzo Ducale i soggetti sacri vengono esaminati in più di una sezione e specialmente nell’ultima, ma poiché nella sua irrefrenabile attività, resa possibile da aiuti e bottega, Jacopo non conosce limiti tematici, quando affronta i soggetti profani, ne esprime tutta la sensualità. Il denominatore che accomuna sia i dipinti sacri che quelli mitologici è un impetuoso coraggio portato sull’orlo della sfrontatezza, impastato di bagliori visionari, di tagli prospettici arditissimi, di scorci “maravigliosi”, acceso da uno slancio che sconfina nel sentimentale. Tintoretto «sferza sciabolate come un leviatano e cielo e terra diventano una cosa sola» (Ruskin). Difficile trovare una sintesi “critica” più efficace di questa. C’è da domandarsi se il senso di sterminata potenza, il connubio fra cielo e terra, decantati da Ruskin, si evidenzino soltanto nelle immense tele site nelle chiese e nelle scuole, oppure anche nei quadri di dimensioni minori.

Tintoretto ragiona sempre in grande. Prendiamo come esempio la stupefacente Deposizione dalla croce oggi nelle Gallerie dell’Accademia, databile nel 1562 (che comunque misura quasi tre mesi di base). La troviamo nella sezione della mostra di Palazzo Ducale intitolata «Corpi eroici», dove si sottolinea il rapporto che lega l’opera del Robusti a Michelangelo. In questo dipinto, con la figura sfinita della Vergine Maria che non può non avere attratto lo sguardo di Annibale Carracci di passaggio a Venezia, è presente un elemento devoto, indipendente dal fatto della deposizione di Cristo dalla croce, bensì pensato in funzione di celebrare con accenti teatrali il dramma sacro in azione. A un estremo concettualmente opposto, qualcosa di parimenti teatrale traspare nel quadro più profano di Tintoretto: il Tarquinio e Lucrezia di Chicago. Qui la concitazione più che suggerita viene imposta dalla storia narrata, ma se la versione di Tiziano dello stesso episodio trova la sua energia nel gruppo compatto di Tarquinio e Lucrezia, in quella di Tintoretto tutto appare dilatato e monumentale. Dal punto di vista cromatico il colore si è assestato su toni bruni e lividi, per concedere alla luce di svolgere un ruolo primario. Mentre i corpi sono torniti da una materia pittorica solida, sì da sembrare fusi nel bronzo, le vestimenta e i drappi a terra sono profilati da bagliori di biacca che creano fulminei contrasti. Non assistiamo a un dramma consumato intimamente, bensì a un dramma colto in flagrante.

Il genere del ritratto, nel percorso di Tintoretto, è forse il più inquinato da presenze clandestine. La bellissima galleria dei ritratti allestita in mostra è filtrata attraverso un severo vaglio stilistico, basato sulla qualità. Sono per lo più ritratti virili e “in nero”, come si addice ai tempi e al codice della controriforma. All’ampio problema della tecnica pittorica sono dedicate tre sezioni, accomunate dal titolo «Tintoretto all’opera». Fra gli innumerevoli accorgimenti, finalizzati soprattutto alla velocità d’esecuzione (e al risparmio), vige il riuso di vecchie tele semi lavorate e accantonate per ragioni diverse, pratica non ignota nemmeno a Tiziano. Si osservi la Natività di Tintoretto a Boston, nella quale alle spalle di San Giuseppe compaiono chiaramente i piedi di un Cristo crocifisso appartenente a un quadro rifiutato chi sa quando. Ed è di un certo conforto constatare come geni prolifici e danarosi della statura di Tiziano e Tintoretto fossero così attenti a non buttar via niente.

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