Tommaso Di Francesco: il senso di una storia trasfigurato in poesia
“A contendere – Quartine da remoto” è in libreria per i tipi di Asterios
di Niccolò Nisivoccia
5' di lettura
L'ultima, recentissima raccolta poetica di Tommaso Di Francesco, “A contendere – Quartine da remoto” (Asterios, 118 pp., € 13), può essere letta come una specie di rappresentazione simbolica, in versi, della doppia anima del suo autore – tanto più se consideriamo che, come sembra di capire leggendo la “Nota” finale del libro, a firma di un critico raffinato quale Massimo Raffaeli, si tratta di una raccolta andata componendosi negli anni, progressivamente, quasi rispondendo “a un'ossessiva incombenza” di registrare la propria vita trasfigurandone il senso attraverso il tempo che intanto scorreva.
Giovanissimo, nel 1969 Di Francesco era stato tra i fondatori del “manifesto”, inteso – prima ancora che come quotidiano – come formazione politica costituitasi a seguito della radiazione dal PCI di un gruppo di dissidenti, di cui facevano parte Luciana Castellina, Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luigi Pintor, Rossana Rossanda.
Storia pubblica e politica del nostro Paese
Inizialmente il gruppo era raccolto intorno a una rivista, com'è noto; ed è altrettanto noto che solo nel 1971 quella rivista sarebbe diventata il quotidiano di cui Di Francesco è a tutt'oggi il condirettore.Entro questi limiti, dunque, la biografia di Di Francesco sembrerebbe pienamente sprofondata nella storia pubblica e politica del nostro Paese. Ma sarebbe riduttivo circoscriverne a questo la cifra, proprio perché alla sua anima politica Di Francesco affianca da sempre un'anima, un'inclinazione anche più solitaria, testimoniata da una produzione poetica altrettanto importante e prestigiosa.
I suoi primi versi apparvero nel 1968 su Nuovi Argomenti, per invito nientemeno che di Pier Paolo Pasolini, e poi via via sarebbero venute le raccolte: da “Trobar” e “Cliniche”, la prima del 1984, la seconda del 1987, introdotte rispettivamente da Roberto Roversi e da Franco Fortini, fino alle più vicine “Via Latina” o “Reificar”, entrambe da Manni, del 2012 e del 2017.
Insieme a molte altre cose ancora: saggi, racconti, fiabe.
Uno sguardo sul mondo attraverso un doppio registro
Ora è come se, dentro “A contendere”, appena pubblicato, queste due anime biografiche si tenessero unite più che mai e meglio che mai. Come se, in questo caso come mai nel passato, Di Francesco avesse voluto riconoscerne e dichiararne esplicitamente la commistione. Se non di più: il loro essere consustanziali l'una rispetto all'altra, la loro inseparabilità. Ecco: è come se, attraverso le poesie di “A contendere”, questa inseparabilità assumesse ora una dimensione anche posturale e strutturale.Dal punto di vista della forma, la raccolta è perfettamente compatta: non c'è poesia che non sia composta da due strofe, ciascuna delle quali a sua volta composta da una quartina, sempre in endecasillabi; e non c'è poesia nella quale la seconda strofa non sia scritta in carattere corsivo. Ed è qui che Di Francesco sembra voler rivelare, seppur all'apparenza dissimulandolo, il doppio registro del suo sguardo sul mondo: in questo accostamento di strofe il cui variare grafico, se non ci si sbaglia, sembra appunto coincidere sempre con una corrispondente variazione di tono.
Anche Raffaeli, nella sua “Nota”, riconosce in questa alternanza di registri l'espressione di una “dislocazione dell'esserci”, ma ne individua il significato, piuttosto, in una volontà di distinguere fra “parte razionale e irrazionale del percepire”, in un desiderio di restituire il senso del continuo sovrapporsi nei nostri giorni di momenti governati dalla razionalità e di altri, viceversa, sgominati dal suo contrario: dall'irrazionalità, dal vuoto, dal nulla. E certo: di irrazionalità, di vuoto, di nulla, sono piene le nostre esistenze non soltanto nella loro dimensione quotidiana ma anche in una prospettiva più ampia, più larga. Dove mai potremmo trovare una manifestazione più clamorosa del vuoto e del nulla, infatti, se non nelle guerre, nella povertà, nelle privazioni diffuse di ogni genere? “Parevano annunci le case sventrate,/parevano canzoni gli urletti bambini/davvero apparivano proprio mica male/corpi in cenere da effetto collaterale”, leggiamo ad esempio in una quartina; oppure, in un'altra: “Chiudono uno a uno negozi i fallimenti,/chiude il corpo e la specie i filamenti,/non usciamo da noi senza quel fiuto/d'una scelta preda che corra in aiuto”.
Un “Io nella Storia”
Un “Io nella Storia” insieme a un “Io personale, quasi intimo”. Ma è esattamente questa differenza di prospettive a suggerire una possibile ulteriore interpretazione, che veda nell'alternanza fra le strofe, oltre al tracciamento di una linea fra il razionale e l'irrazionale, anche lo specchio di quella medesima alternanza fra registri appartenente alla biografia dell'autore: un registro tutto politico, combattivo, aperto sul mondo, proiettato nella Storia, da un lato, e un registro più intimo da un altro lato, quasi familiare e sentimentale, mai ripiegato solo su di sé ma comunque sprofondato nella vita di ogni giorno. Com'è inevitabile che sia, la distinzione fra l'uno e l'altro registro non è mai netta, definitiva: non lo è sotto il profilo formale, grafico – nel senso che talvolta, in una poesia, ci sembra di scorgere un tono più politico nella prima strofa e un tono privato tout court nella seconda, ma altrove, in altre poesie, succede l'opposto, che il tono privato prevalga nella prima strofa e quello politico nella seconda. Né lo è sotto il profilo dei contenuti, perché accade spesso che i toni siano mischiati, confusi uno nell'altro, anche all'interno di una stessa strofa.
È ovvio, vuoi perché anche la poesia può essere in quanto tale sia civile che introspettiva; vuoi perché ciascuno di noi è abitato da una moltitudine di stanze, irriducibili all'ordine, a un'unità assoluta.
Dare un posto al disordine
La politica, ha scritto Luigi Manconi, è dare un posto al disordine. E forse anche “A contendere” non cerca altro che di dare un posto al disordine: cioè di trovare un equilibrio, se non un'armonia, fra prosa e poesia, nella contesa fra una dimensione politica dell'esistenza e una più esclusiva, più personale. Nel migliore dei mondi possibili all'una dovrebbe corrispondere l'altra, ma la realtà è lontana dal migliore dei mondi possibili. E probabilmente è per questo che i versi di Di Francesco lasciano trapelare ogni tanto un certo gusto amaro, di disincanto – come una specie di disillusione, per quanto stemperata dalla musicalità delle strofe e dalle rime, rispetto a tante cose che potevano essere e non sono state.Vuole allora dirci, Di Francesco, che la dimensione privata, il calore dei corpi e la poesia stessa potranno continuare a valere solo come luoghi di salvezza, o di consolazione, contro le disillusioni provocate dalla Storia? No: di nuovo, sarebbe una conclusione riduttiva, penalizzante. Di Francesco dichiara di scrivere “da remoto”, è vero: ma aldilà dell'amarezza di un singolo momento, aldilà di temporanei smarrimenti, la sua voce rimane forte e pura, e nella sostanza non cede mai alla tentazione dell'abbandono o della resa.
A contendere – Quartine da remoto (Asterios, 118 pp., € 13)
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