Torna Thurston Moore e dice “sharing”
Esce l'ultimo album del musicista statunitense dal titolo “By The Fire” in cui convergono tanta poesia e un pizzico di classicità. A “IL” racconta cosa significa oggi essere emblema e guida di un'avanguardia inclusiva e collaborativa, socialmente consapevole e politicamente di rottura
di Michele Casella
6' di lettura
«La vera gioia, oggi, è quella di condividere storie e musiche, magari attorno al fuoco. È per questo che il nuovo album si intitola By The Fire». Sessantadue primavere compiute, artisticamente attivo da metà anni '70 in quella New York che ha rivoluzionato il panorama artistico globale, Thurston Moore usa una delle parole più in voga degli ultimi anni per descrivere il senso del suo nuovo disco: sharing. Ma se oggi l'accezione comune è quella di condivisione digitale, per l'ex leader dei Sonic Youth si tratta più di una partecipazione in stile Decameròn, aperta alla sinestesia artistica e allo squilibrio dei sensi. Questo settimo album segna infatti un nuovo passo rispetto a un percorso creativo ormai ultracontaminato, ma presenta anche dei fondamentali elementi di continuità nello stridore delle chitarre e nella tensione di ogni singola traccia. L'esperienza coi Sonic Youth è ormai alle spalle, ma il suono di Moore resta ancora fortemente radicato in quelle dissonanze che hanno fatto la storia del rock alternativo, dilatando e deflagrando brani che parlano di energia spirituale e dignità collettiva, amore, sogno e desiderio. Pubblicato per la sua label personale, dal nome sonicamente eufonico di Daydream Library Series, By The Fire è un disco in cui convergono tanta poesia e un pizzico di classicità; la prima perché il cantautore statunitense – oggi di base a Londra – si rivela affascinato dai poeti simbolisti francesi, verso i quali manifesta una devozione che trova riscontro in brani come Dreamers Work e Hashish. Quell'elegia visionaria esonda in uno sconfinamento dei sensi e in un ricongiungimento con la poesia contemporanea del suo amico e collaboratore Radieux Radio. La classicità, invece, la si ritrova non solo nei riferimenti del brano Venus o nell'ispirazione italiana di Breath, ma principalmente in un suono che ha travalicato l'identità artistica di Moore per diventare pietra miliare di un più ampio cambiamento generazionale. Così, da quella dichiarazione d'intenti che divenne il mini album Kill Yr Idols nel 1983, Moore racconta a IL cosa significa oggi essere emblema e guida di un'avanguardia inclusiva e collaborativa, socialmente consapevole e politicamente di rottura.
Nel 1976 sei arrivato a New York per demolire il rock classico, cosa provi adesso che tu stesso sei diventato un classico dell'evoluzione rock?
La rivoluzione sonora e la musica underground hanno influenzato il mainstream. Ho visto tante band provenire dalla sperimentazione degli anni 70 e 80, in cui i Sonic Youth erano coinvolti, e sono sempre stato curioso di vedere quale uso si potesse fare delle nostre idee per raggiungere il grande pubblico. I Radiohead per esempio, che penso siano una buona band, credo siano stati influenzati dai Sonic Youth ma che abbiano anche pensato a come rendere la propria musica più accessibile, e questa è la loro prerogativa. Dal canto nostro non c'era alcuna programmazione, facevamo quello che volevamo. Non abbiamo formato una band per demolire, bensì per costruire qualcosa di nuovo, non stavamo provando a realizzare un attacco. Seguivamo ciò che ci intrigava, ma eravamo genuinamente interessati anche alla musica di personaggi come Madonna o Bruce Springsteen, la cui storia non era basata sulla ricerca della celebrità ma sulla musica che stavano facendo.
La tua etichetta discografica, la Daydream Library Series, può essere considerata una label radicale di musica politica e contemporanea? Proprio nello stile delle Big Joanie, di cui avete pubblicato il disco d'esordio…
Assolutamente sì, tutta la musica che pubblichiamo nasce proprio da qui. La prima volta che vedemmo le Big Joanie suonavano di spalla agli olandesi The Ex: furono fantastiche e decidemmo di realizzare un disco con loro. Quello della label è un lavoro molto duro, con tante responsabilità, da cui nasce una relazione forte con gli artisti. Si tratta di arte politica, c'è scambio e comunicazione. È un mondo diverso dalla classica industria musicale, che ormai ha poco interesse nel supportare la nuova musica underground. Oggi il mondo è davvero cambiato, ma mi piace l'idea che le band lavorino in completa autonomia su piattaforme come Bandcamp, dove possono impegnarsi da amministratori per diffondere la loro musica.
Pensi che ci siano dei tratti in comune con ciò che accadeva negli anni 70 con la filosofia del “Do It Yourself”?
Sì, in effetti ci sono delle somiglianze. Negli anni 70 non avevamo il privilegio della comunicazione via Internet, ma si provava comunque a creare dei network alternativi per la registrazione e la distribuzione sonora. Tutta l'attenzione era sul percorso artistico che si intraprendeva, sul porre energia nell'attitudine creativa del gruppo. Certo, il desiderio era anche quello di vendere dischi e suonare davanti a tanta gente, ma fare soldi e diventare celebrità erano qualcosa di cui si rideva. E quando è accaduto che alcuni artisti dalla nostra scena divenissero famosi, come ad esempio Basquiat o Madonna che pure se lo meritavano, tutto era straniante, come vincere la lotteria.
Il primo singolo del nuovo, “Hashish”
Ho sempre ammirato i simbolisti francesi, a metà anni 70 c'erano già queste referenze nella musica di artisti come Patti Smith, Tom Verlaine e Television. Anche il pensiero all'origine del punk rock, l'idea di andare sempre avanti e distruggere il passato, sono stati alla base di quel linguaggio. Si è trattato di una complessa ideologia musicale e anarchica, che è poi fluita nel rock contemporaneo come il suono della rabbia della working class.
In “By The Fire”
Debbie è un eroe e i Sonic Youth suonavano coi My Bloody Valentine già negli anni 80. Uno dei primi concerti è stato a Glasgow, dove i My Bloody ci facevano da supporto e nel 1985 la loro musica suonava completamente nuova, erano grandi, fantastici. Diversi anni dopo, quando mi sono trasferito a Londra, ho iniziato a suonare con il chitarrista James Sedwards e abbiamo pensato di metter su una band. Un giorno mi ha proposto di chiamare Debbie Googe e gli ho detto “Stai scherzando? Sarebbe fantastico!”. Per me i My Bloody Valentine sono superstar, come i Beatles o i Rolling Stones. Con Debbie ci siamo trovati subito benissimo, una sera ci siamo ubriacati con un paio di bottiglie di vino e abbiamo deciso di formare la band.
Anche in questo disco collabori col poeta Radieux Radio, un artista di cui si sa pochissimo, come si è sviluppato il lavoro sulle liriche?
Radieux Radio è un poeta londinese che preferisce restare nell'ombra, lontano dalla pubblicità mediatica. È anche un amico e adoro collaborare con lui per i testi, per me è come cooperare con differenti musicisti, suonare con Steve Shelley, Debbie Googe o Jem Doulton. La musica per me è collaborazione, io fornisco la struttura ma desidero che gli altri creino assieme a me.
Dopo aver composto un brano come “Kill Yr Idols” , oggi insegni musica al Rytmisk Musikkonservatorium di Copenhagen, ma anche scrittura alla Jack Kerouac School of Disembodied Poetics alla Naropa University. Qual è il tuo obiettivo principale nella didattica?
Quando abbiamo iniziato, tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli 80, molti ci scambiavano per uno spin-off di Glenn Branca, ma noi non ci riconoscevamo in quella definizione. Certo Glenn fu di aiuto e incoraggiamento, lui ci ha ispirato, ma cercavamo di fare qualcosa di assolutamente personale. Con Kill Yr Idols volevamo appunto rendere l'idea che, se crei una band, devi essere te stesso e costruire il tuo sound. Ora, quando insegno, parlo dell'idea di trovare la tua voce personale, ma allo stesso tempo di conoscere l'eredità del lavoro che ti ha ispirato in prima istanza. Penso sia una cosa importante e oggi sono molto interessato a collaborare con gli altri.
Dato che insegni scrittura, sei interessato al moderno storytelling, alle serie tv e alle storie interattive online?
Penso che molta scrittura dei film e della televisione contemporanea sia impressionante, negli ultimi 10 anni le trame e i protagonisti sono diventati molto sofisticati. Non sono uno di quelli particolarmente entusiasti della tv, ma comunque la guardo e in questo periodo sono affascinato dalla miniserie Mrs. America, che racconta la vita di Gloria Steinem, l'attivista per i diritti delle donne. Inoltre guardo molti film e materiali sul sito christiebooks.co.uk, fondato dallo scrittore anarchico Stuart Christie. Ci sono film fantastici e si trova anche una eccezionale collezione di materiale italiano. In questo periodo, però, sto scrivendo molto e lavoro a un memoriale su ciò che significava essere essere musicisti negli anni 70, trasferirsi a New York, fondare una band e registrare le proprie cose. Dovrei pubblicarlo il prossimo anno.
Cosa pensi dell'ascolto su piattaforme di streaming come Spotify? Pensi che possa aiutare la diffusione della musica o preferisci il buon vecchio vinile?
Senza dubbio preferisco il vinile, le cassette e le persone che scambiano musica. Quello online è un ascolto molto facile e conveniente, ma che compromette la qualità della registrazione. Inoltre è ormai noto che il 99.9% degli artisti che ha la propria musica in streaming guadagna compensi molto molto bassi, mentre chi amministra quelle piattaforme guadagna miliardi. È tutto un po' grottesco, si tratta di una manipolazione delle grandi aziende nella distribuzione della musica. Gli artisti dovrebbero ribellarsi, chiedere almeno un piccolo aumento su quei guadagni.
Una domanda personale, Eva Prinz è la musa che ti ispira?
Oh sì, Eva Prinz è più di una musa, per me è tutto. Se cerchi la felicità, allora innamorati!
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