ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùLa riforma del Patto di stabilità

Tornare ai parametri ci condannerà a crescere poco e male

Trent’anni fa la Comunità economica europea si trasformò in Unione europea e in vista della moneta unica furono stabiliti i parametri di Maastricht come condizioni per l’ingresso nell’euro.

di Mario Baldassarri

4' di lettura

Trent’anni fa la Comunità economica europea si trasformò in Unione europea e in vista della moneta unica furono stabiliti i parametri di Maastricht come condizioni per l’ingresso nell’euro. All’epoca in Europa la media del rapporto debito/Pil era al 60 per cento. La futura Banca centrale avrebbe avuto il compito di tenere l’inflazione al 2 per cento. La crescita strutturale di lungo termine fu prevista al 3 per cento. Pertanto, il Pil nominale fu previsto crescere al 5% all’anno. Da qui fu derivato il tetto al deficit pubblico totale al 3 per cento. Infatti, per mantenere fermo al 60% il rapporto debito/Pil, con un Pil nominale che cresce al 5% basta garantire che il deficit sia al 3% del Pil (il 5% del 60% fa 3%). Questo criterio “aritmetico” era totalmente avulso da almeno due fondamentali di teoria economica.

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Non distinguendo tra spesa corrente e investimenti pubblici, si poteva avere un Paese con zero investimenti e 3% di deficit dovuto a spesa corrente e un altro Paese con zero deficit corrente e 3% di deficit dovuto tutto a investimenti. Entrambi avrebbero aritmeticamente rispettato Maastricht. Ma anche un bambino avrebbe capito che le prospettive di crescita strutturale di quei due Paesi sarebbero state totalmente diverse. Il tetto al deficit totale del 3% non avrebbe quindi garantito, neanche aritmeticamente, che il rapporto debito/Pil sarebbe rimasto fermo al 60% in entrambi i Paesi. Nel primo il rapporto sarebbe aumentato, nel secondo sarebbe sceso.

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La stabilità del Debito è garantita se il rapporto debito/Pil resta fermo nel tempo, indipendentemente dal livello già raggiunto del rapporto. Se un Paese ha un rapporto del 50% che è previsto crescere al 100% il suo debito non è sostenibile. Se un Paese ha un rapporto al 150%, ma è previsto che scenda, il suo debito è sostenibile. Tutto questo è anche indipendente dalla velocità di crescita o di riduzione dello stesso rapporto debito/Pil. Certamente se la crescita prevista del rapporto è molto forte il giudizio di insolvibilità arriverà in tempi rapidi e con reazioni più violente. Ma se si forza la discesa del rapporto si va a incidere sulla crescita potenziale e si rischia di avvitarsi.

Queste due pietre miliari di teoria economica sono state poste oltre settant’anni fa da Robert Solow, premio Nobel e padre della teoria della crescita, a partire dalla sua Golden rule. Sul finire degli anni 70 del secolo scorso apparve inoltre la distinzione tra spesa corrente ed investimenti che fu chiamata Platinum rule. Le esperienze europee degli ultimi 20 anni ne sono la controprova, con i dati dell’Italia che ne rappresentano la più chiara conferma. Se si persegue il cosiddetto rigore tagliando il deficit totale con aumenti di spesa corrente e riduzioni di investimenti, si frena la crescita e il rapporto debito/Pil aumenta: non si ha crescita, non si ha stabilità e non si ha rigore finanziario. Un risultato non certo brillante per un Patto chiamato di stabilità e crescita. Il Pil pro-capite italiano in valore reale nel 2022 è stato uguale a quello che avevamo nel 2000. Abbiamo quindi avuto 22 anni di crescita zero. Il debito italiano in valore assoluto era nel 2000 pari a 1.300 miliardi di euro, nel 2022 è stato pari a 2.800 miliardi. Il rapporto debito/Pil nel 2000 era al 109%, nel 2022 al 147 per cento. E la riduzione dello scorso anno e di quest’anno è dovuta al rimbalzo dell’inflazione.

Se avessimo ridotto il deficit attraverso meno spesa corrente e più investimenti, avremmo avuto più crescita e avremmo prima fermato poi ridotto il rapporto tra debito e Pil con l’unico circolo virtuoso possibile: più investimenti, più crescita, meno deficit, meno debito. Ma per avere più investimenti pubblici occorre contenere la spesa corrente e “aggiungere” progetti concreti e realizzabili con i fondi del Pnrr. Entrambi sostengono la domanda nel breve ma, soprattutto, aumentano la Produttività totale dei fattori e la crescita potenziale nel medio-lungo termine.

Di fronte al Covid i parametri di Maasticht sono stati sospesi a tutto il 2023.

La settimana scorsa la Commissione ha reso noto un testo che dovrebbe introdurre le nuove regole a partire dal 2024. Vengono riesumati i due parametri aritmetici: deficit totale al 3% e rapporto debito/Pil al 60 per cento. Rispetto a questi due “numeri fissi” si propone un processo di aggiustamento più flessibile e più lungo (4-7 anni?). Ma non si corregge il peccato originale e cioè la fondamentale distinzione tra spesa corrente e investimenti, magari affidando a una autorità indipendente la certificazione degli investimenti.

Antiche basi teoriche e 20 anni di esperienze empiriche danno motivazioni profonde, e anche di buon senso, alla definizione data anni fa da Romano Prodi quando definì i parametri di Maastricht «stupidi». Una maggiore flessibilità non potrà mai trasformare quei parametri da stupidi a intelligenti.

Un’autolesionistica crisi energetica, una guerra nell’androne di casa, una crisi migratoria che rischia di travolgerci, una dipendenza tecnologica che ci costringe a scegliere tra Stati Uniti e Cina non sembrano bastare per capire l’urgenza di una Europa federale e non più intergovernativa.

E invece riesumiamo i vecchi parametri con il rischio di autocondannarci per altri 20 anni a crescita asfittica e fragilità finanziaria. Non solo in Italia, ma in tutta Europa.

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