Torre Maura, perchè la logica dei ghetti alimenta solo il razzismo
di Vittorio Pelligra
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“Lo scopo del razzismo è quello di identificare l'estraneo in modo da definire il proprio sé alienato”. Scrive così il premio Nobel per la letteratura, Toni Morrison, nel suo bellissimo “L'origine degli altri” (Frassinelli, 2018). Razzismo e alienazione sono andati in scena questi giorni a Roma, borgata di Torre Maura, periferia Est della città.
I panini buttati per terra e presi a calci, in un gesto inconsapevolmente sacrilego; qualcuno minaccia uomini, donne e bambini al grido di “li brucio, li brucio”; gli “attivisti” di Casapound (povero Ezra!) che aizzano la folla con braccio teso e altre nostalgiche pose – ma la legge non vietava l'apologia del fascismo e l'odio razziale? Guerre tra poveri: i residenti esasperati che assediano il centro di accoglienza dove erano appena stati trasferiti alcune decine di Rom, tra cui trentatré bambini, dopo lo sgombero del loro campo. Periferie disagiate, vite alienate, la necessità di costruire il sé in contrapposizione all'altro. Pochi servizi, scarsi collegamenti col centro, un clima di perenne insicurezza e malcontento che facilmente può venire alimentato e strumentalizzato a fini politici, in questo caso, contro alcune decine di Rom e trentatré bambini.
I presìdi, la tensione, le minacce, inducono la sindaca Raggi, nonostante le dichiarazioni di non voler cedere ai fascisti, a trasferire tutti i Rom, in un altro centro, in un'altra zona della città. “È la nostra vittoria, abbiamo difeso il nostro quartiere – esulta qualche residente - così come ci siamo ribellati noi, lo faranno anche altri”. Hanno vinto contro i Rom, più ultimi degli ultimi, ma il loro disagio, la loro insicurezza e il degrado della loro periferia è ancora tutto lì e niente cambierà nel prossimo futuro. Questa è la loro vittoria. Abbiamo anche visto il confronto tra Simone, il quindicenne borgataro e Mauro Antonini, responsabile di Casapound per il Lazio e candidato governatore alle ultime elezioni regionali. “Non tutto il quartiere è contro i Rom” – afferma Simone e smonta così la retorica dei difensori degli ultimi. “A me non me sta' bene che no”
Non gli va a Simone che il suo quartiere venga usato da forestieri a caccia di voti. Non vuole farsi strumentalizzare, lui. L'unico, in tutta questa vicenda a mostrare un po' di buon senso e un po' di maturità. Né i residenti, facili prede della strumentalizzazione più becera, né i fascisti xenofobi e razzisti che hanno gettato benzina sul fuoco del malcontento, ma neanche la politica della sindaca che cede al ricatto e delle amministrazioni della Capitale, che in tutti questi anni non sono riuscite a normalizzare un fenomeno, l'integrazione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti, che in altre nazioni d'Europa non solo non rappresenta un problema, ma crea opportunità di sviluppo umano e sociale.
Nel febbraio 2012 il Governo Monti, dietro sollecitazione dell'Unione Europea, approva la “Strategia nazionale 2012-2020 d'inclusione” che prevedeva, innanzitutto, il superamento definitivo di una gestione emergenziale dei problemi di integrazione. Poco è stato fatto oltre qualche sgombero forzoso. Fallimenti di certa politica, incapace, al di là degli slogan acchiappa-voti, di programmare, attuare e gestire soluzioni a problemi sociali complessi. E sì che gli strumenti ci sono tutti. Le strade per l'integrazione sono note e i fondi arriverebbero abbondanti dall'Europa.
Tra il 1994 e il 1998, quattromila e seicento famiglie, quasi sedicimila persone, appartenenti a minoranze afroamericane ed ispaniche, provenienti dai quartieri più disagiati di cinque grandi città americane, vennero coinvolte in un grande programma sperimentale noto come “Moving to Opportunity” (Chetty, R., et al., 2016, “The Effects of Exposure to Better Neighborhoods on Children: New Evidence from the Moving to Opportunity Experiment”, American Economic Review, 106(4): 855–902). L'esperimento mirava a valutare l'impatto dell'integrazione abitativa sulle prospettive di emancipazione e di inclusione sociale ed economica delle famiglie più svantaggiate. I beneficiari del progetto vennero suddivisi in tre gruppi: un gruppo di controllo al quale venne assegnata una “casa popolare”; un secondo gruppo al quale venne assegnato, invece, un voucher da spendere per pagare l'affitto di una casa “normale”; infine, un terzo gruppo di famiglie alle quali venne assegnato il voucher per l'affitto di una casa, ma solo a patto che questa fosse in un quartiere differente rispetto a quello di origine e con un'incidenza della povertà non superiore al dieci per cento.
Le storie di queste famiglie sono state seguite per tutti questi anni, ed in particolare, sono stati valutati gli effetti delle diverse politiche abitative sui figli di quelle famiglie ormai diventati adulti: Il 41% di coloro che avevano vissuto nella casa popolare erano ancora in condizioni di povertà decenni dopo, contro il 29% di quelli che avevano ottenuto il voucher e solo il 19% di quelli che con il voucher si erano trasferiti in un quartiere meno disagiato.
Il reddito medio dei primi è risultato essere, pari a $11.000, quello dei secondi, a $12.900 e quello dei terzi, invece, a $14.700. Uscire dal ghetto, soprattutto se questo è avvenuto in età precoce, prima dei 13 anni, ha avuto un effetto enorme sulla probabilità che questi ragazzi potessero emanciparsi, iscrivendosi al college e trovando un lavoro che li aiutasse a lasciarsi dietro le spalle i problemi di povertà ed esclusione delle loro famiglie di origine. Alla luce di questi dati e di molte altre esperienze simili, come possono, ancora oggi, molte amministrazioni pensare che la soluzione dei problemi di integrazione possa essere quella di costruire nuovi ghetti; ammassare decine, centinaia di persone in enclave chiuse, che assieme ad un tetto, portano anche un'ipoteca per la vita, una zavorra pesantissima per il destino di adulti e soprattutto bambini. Le reazioni odiose al trasferimento dei Rom a Torre Maura non possono far dimenticare il modello vecchio e inefficiente di integrazione che il Comune stava perseguendo. Eppure, qualche esempio virtuoso in giro per l'Italia si trova. Amministratori illuminati e capaci, che non si rassegnano a mettere questi problemi sotto il tappeto, come fastidiosa spazzatura. Nel gennaio 2015 il campo Rom di Fertilia, periferia di Alghero, in Sardegna, viene sgomberato.
Nessuna azione di forza, né Carabinieri o Polizia, né tantomeno ruspe. Le famiglie lo lasciano volontariamente. Vogliono che il campo chiuda. Il comune ha deciso di attuare la “Strategia nazionale d'inclusione” e ha messo a punto, assieme alla Caritas Diocesana, all'Opera Nomadi e al Centro di Ascolto Diocesano, un piano per l'integrazione abitativa in città. Case normali, in quartieri normali, come famiglie normali. Il sindaco, Mario Bruno, i soldi li ha trovati a Bruxelles, vengono da un fondo vincolato, che può essere utilizzato solo per progetti simili. Erano sessantadue persone, trenta bambini; numeri non molto diversi da quelli di Torre Maura. Stessa domanda di cittadinanza e inclusione, diverse risposte. Perché? Davvero non ci meritiamo una classe di amministratori migliori? Amministratori che siano in grado di risolvere i problemi dei loro concittadini, invece di renderli esplosivi, come è successo questi giorni a Roma? La retorica della contrapposizione politica perenne, delle ruspe, dello scaricabarile, ma anche delle promesse irrealizzabili, non aiuta a rendere l'Italia un paese decente, un paese capace di non umiliare i propri cittadini. E allora guardiamo a Simone e al suo buon senso, alla sua voglia di dialogare e di confrontarsi, in modo civile e maturo; dall'alto dei suoi quindici anni, ha dato lezioni a tutti. A noi decidere cosa farne.
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