Totti, storia di un capitano in simbiosi con una città
di Giulio Peroni
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Francesco Totti, il capitano della Roma che assomiglia a Roma. Ciuffo in fronte smosso dal Ponentino, gambe geometriche, colpi di genio costruiti sul travertino. Totti non è stato solo un calciatore, è stato l'espressione di una romanità ancora viva, aggrappata ai denti, che non vuole saperne di volare via. La romanità che sopravvive nonostante tutto, nonostante i tempi. Ancora autoctona, pregna di anima, seduta e sedotta nella propria stupefacente bellezza. Carlo Verdone sostiene che Roma- città ha cominciato a smarrire sé stessa, cultura e soggetti capitolini, dopo la metà degli anni ’80. Qualche anno dopo il suo esilarante “Borotalco”, girato accanto ad Eleonora Giorgi, ai romanissimi Mario Brega ed Angelo Infante. L'anticamera dei titoli di coda della Grande Roma dello scudetto (1983), della Coppa Campioni persa ai rigori all'Olimpico contro il Liverpool (1984). Quella di Nils Liedholm in panca, di Bruno Conti, Pruzzo e Falcao. Francesco ha avuto il merito, anni dopo, di rivitalizzare Roma città (e Roma club) ormai in discesa identitaria. Di riaccenderne i suoi accenti forti. Narrati e un po' restaurati nell'estate del '99 dal “Supercafone”, il disco tormentone dell'orgogliosa irriverenza rugantina cantata da Er Piotta.
E così Totti è riuscito nell'impresa di costruire pezzo dopo pezzo, e soprattutto dalla propria morfologia, il lungo cammino che ha portato il titolo tricolore a Trigoria. Quello della “Magica” Roma 2000/2001 di Fabio Capello il duro, il nordico, il pragmatico. Un friulano con mento pronunciato e minaccioso. Talmente tosto e poco naif, che una certa intellighenzia capitolina, stanziale nell’effimero della Grande Bellezza, non solo non lo reggeva, ma persino gli preferiva la Roma pirotecnica, perdente e scanzonata di Zdenek Zeman.
Con Don Fabio in panchina, Totti ha guidato un gruppo di ragazzi massicci e compatti. Con quel trio d'attacco, con Montella e Batistuta, che sanciva lo spirito a trazione anteriore di un gruppo artistico, robusto, vincente. I giovani vestiti di giallorosso erano ancora un po' traumatizzati dallo scudetto dell'anno precedente della straordinaria Lazio di Cragnotti. Che a quei tempi, sul finire degli anni ’90, sembrava non solo imbattibile, ma pure una squadra dal futuro certo, inossidabile. Inscalfibile per ogni avversario. La Roma vinse tutto, anche le certezza della Lazio.
Il Capitano ha lasciato il calcio giocato il 28 maggio del 2017. Solo ieri. Pare un secolo. In questi giorni è uscito il suo libro- biografia “Francesco Totti. Un capitano”, scritto assieme a Paolo Condò (Rizzoli editore). È il percorso nella memoria sua e collettiva di una città in amore, di un giocatore forse irripetibile per classe-potenza. Di un fuoriclasse diventato campione del mondo con la maglia della Nazionale nel 2006. Ma è anche la storia di un uomo ancora giovane, simbolo di un tempo fuggito, mutato nei valori pallonari dal forte vento modernista. «La scelta di abbandonare la Nazionale a trent'anni per dedicarmi interamente alla Roma- scrive Totti nel libro- descrive bene il mio rapporto con il club e con la città. Viscerale, potrebbe essere la parola giusta. Simbiotico, mi suggerisce un amico che la sa lunga. Sì, l'idea di simbiosi fra me e il mio habitat naturale coglie la realtà delle cose. Roma è universalmente riconosciuta come la città più bella del mondo, ma il mio desiderio di lei nasce in gran parte da una rinuncia. Io non posso percorrerla come vorrei. È da quando fui costretto al trasloco da via Vetulonia a Casal Palocco, perché i tifosi feticisti si fregavano i tappetini del condominio, che la mia libertà di movimento è pesantemente condizionata. È il prezzo da pagare per tutto l'amore che ho ricevuto e continuo a ricevere. Però la simbiosi tra me e Roma viaggia a due velocità: la città si nutre di me fino a sazietà – le partite, le interviste, gli incontri pubblici – mentre a me è consentito al massimo un morso alla mela, poi devo sparire. Magari scappando di notte attraverso un convento di frati, come successe dopo lo scudetto».
L'eterno ragazzo è al secondo posto (250 reti) nella classifica dei marcatori di serie A di tutti i tempi. Premiato per 5 volte (record assoluto) dall'AIC come miglior calciatore italiano, nel 2004 è stato incluso dalla FIFA nella lista dei più grandi giocatori viventi. L'infanzia in via Vetulonia, i primi calci al pallone. La timidezza e la paura del buio. La vita di quartiere. Gli amici che resteranno gli stessi per tutta la vita. Gli allenamenti a cui la mamma lo accompagnava in Fiat 126, asciugandogli i capelli con i bocchettoni in inverno. «L'esordio in Serie A a 16 anni in un pomeriggio di marzo del 1993 a Brescia. Con i pantaloni della tuta che al momento di entrare in campo si impigliano nei tacchetti». Il primo derby, il primo gol, il rischio di essere ceduto alla Sampdoria prima ancora che la sua favola in giallorosso possa cominciare. E poi la gloria. Venticinque anni con la stessa maglia. Uno scudetto, due coppe Italia. E ancora il matrimonio con Ilary Blasi. La vita mondana attraversata sempre con autoironia. Con il sorriso grato di chi ha ricevuto in dono un talento straordinario. Con l'espressione eternamente stupita del ragazzo che una città ha eletto a simbolo e condottiero. Fino al giorno del ritiro dal calcio giocato. Perché Francesco Totti è la Roma, ma è anche un pezzo di vita di una generazione italiana che sognava poeti e trovava eroi. Facce semplici, da ponentino. E niente marchio di fabbrica.
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