Toys R Us e IHeartMedia: due crack provocati dagli «stregoni» della finanza
di Marco Valsania
3' di lettura
Due crack aziendali eccellenti negli Stati Uniti fanno notizia nelle ultime ore: Toys ”R” Us, il più grande retailer di giocattoli, e IHeartMedia, re delle stazioni radiofoniche. Toys ”R” Us, già in amministrazione controllata, ha appena informato i dipendenti che andrà alla liquidazione, chiuderà davvero gli 800 negozi americani e forse i 1.600 che ha in tutto al mondo, mettendo a rischio 33.000 dipendenti negli Stati Uniti e 60.000 complessivi. IHeartMedia, che controlla 850 stazioni nel Paese e ha 17.000 dipendenti, ha annunciato di essere entrata a sua volta in amministrazione controllata con un accordo coi creditori che proverà a dare il via a una drastica ristrutturazione che le consenta in qualche modo di sopravvivere.
Ma potrebbero fare notizia per le ragioni sbagliate, o almeno incomplete: se l'indice dei più appare puntato sugli effetti inevitabili e indubbi della rivoluzione digitale che travolge antiquati protagonisti, sulla concorrenza spietata dell'e-commerce come Amazon e dello streaming di Spotify, la verità è che c'è stato anche dell'altro, assai meno inevitabile e assai meno nuovo. Si tratta anzi di vecchie, vecchissime abitudini di Wall Street, quelle degli eccessi e delle alchimie finanziarie a caccia di pozioni per facili guadagni. Sono loro ad aver svolto un ruolo in realtà cruciale nello spingere al collasso i due gruppi, creando ostacoli insormontabili ad adattarsi e rispondere ad un nuovo clima difficile. I nomi in gioco sono altrettanto celebri: gli “stregoni” oggi sotto accusa vanno da Bain Capital a Kkr, da Vornado Realty Trust a Thomas H Lee Partners. Hanno contribuito allo sconquasso con scommesse effettuate nel momento sbagliato su enormi leveraged buyout, le acquisizioni pagate con indebitamento multimiliardario che hanno lasciato le loro “prede” paralizzate da oneri impossibili da affrontare e a corto di risorse quando i tempi si sono fatti più duri.
Certo, anche questi sofisticati investitori hanno a volte perso un po' dei loro capitali nelle operazioni. Ma ben poca cosa rispetto ai danni provocati ai dipendenti che rimangono senza lavoro. A far scattare le loro scommesse era stata infatti anzitutto l'avidità di deal che promettevano lauti e facili guadagni, in commissioni e altri rendimenti, contando su un clima roseo sui mercati e nell'economia che avrebbe neutralizzato il rischio. Peccato che questi geni di Wall Street questa volta abbiano azzeccato ben poco: sono stati “traditi” dalla grande crisi finanziaria del 2008 e dall'avanzata del digitale. Non esattamente imprevedibili.
Guardiamole più da vicino queste operazioni rivelatesi a conti fatti catastrofiche: Kkr, Bain e Vornado avevano realizzato il leveraged buyout di Toys “R” Us nel 2005, per 6,6 miliardi di dollari ben 5,3 dei quali pagati con debito. Questo ha lasciato un conto annuale da 400 milioni sul groppone dell'azienda. E drenato risorse dalla necessità di far scattare piani - rilanci dei negozi e strategia online - per rispondere alla concorrenza nei giocatoli da nuovi leader quali Amazon come anche Wal-Mart. Che il fallimento non fosse necessario lo rivelano i numeri stessi del bilancio: è vero che le vendite del gruppo sono calate, ma resta tutt'altro che irrilevante. Detiene ancora una fetta straordinaria del 17% del mercato nazionale, pari a oltre 20 miliardi. Un fatto che minaccia oggi di causare danni irreparabili anche all'ecosistema del settore, a molte aziende produttrici di giocattoli grandi e piccole, queste ultime che trovavano spazio sugli scaffali come non trovano su Internet e che potrebbero chiudere a loro volta i battenti.
Ed ecco la vicenda non troppo diversa - di IHeartMedia, guidata da una vecchia conoscenza degli albori di Internet, Bob Pittman ex Aol. Qui il leveraged buyout guidato ancora da Bain e da Thomas Lee era scattato nel 2008 caricando sull'azienda un bagaglio di ben 20 miliardi di debito. Ben 8,4 miliardi di questo debito scade nel 2019. Ogni anno il servizio di questo fardello costa 1,4 miliardi. Cifre che parlano da sole: impossibili da gestire, nonostante i passi avanti in realtà compiuti dal gruppo nel ridurre i costi e verso le nuove frontiere dello streaming. Anche qui la sfida digitale, oltretutto, c'è ma è men che letale da sola: ben 265 milioni di americani si sintonizzano almeno una volta al mese su stazioni del gruppo. L'amministrazione controllata è adesso arrivata assieme a un accordo con i creditori che dovrebbe dimezzare quel debito oppressivo, ma lascia preludere dolorose ristrutturazioni e un'incerta cessione del controllo al gigante mediatico Liberty Media.
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