economia e beni culturali

Tra il dire e il fare, o del mancato sostegno alle imprese culturali e creative

di Daniele Donati*

3' di lettura

In questi giorni, mentre si inizia a definire il profilo della prossima legge di stabilità, viene da pensare a ciò che abbiamo lasciato indietro di quella precedente.
Una sorta di consuntivo che sta lì a dimostrare come vi sia una certa differenza tra l'inclusione in quel testo e l'effettività delle disposizioni. E che molto deve accadere “oltre la norma” nel corso dell'anno, anche quando le scelte di regolazione incontrano l'approvazione e il concorde interesse di tutte le parti politiche.
È il caso delle disposizioni di cui agli artt. 57-60 della legge 27 dicembre 2017, n. 205 - appunto il Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 - che avevano dato disciplina e sostegno alle imprese culturali e creative dopo che queste, negli ultimi anni, erano state oggetto di significativa e fondata attenzione non solo da parte di molte analisi, ma anche delle istituzioni comunitarie nella progettazione delle più recenti politiche per lo sviluppo.
All'art. 57 rubricava come tali «le imprese o i soggetti che svolgono attività stabile e continuativa, con sede in Italia o in uno degli Stati membri dell'Unione europea o in uno degli Stati aderenti all'accordo sullo spazio economico europeo» che rispondessero a due condizioni: essere soggetti passivi di imposta in Italia e avere come oggetto sociale, in via esclusiva o prevalente, «l'ideazione, la creazione, la produzione, lo sviluppo, la diffusione, la conservazione, la ricerca e la valorizzazione o la gestione di prodotti culturali, intesi quali beni, servizi e opere dell'ingegno inerenti alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, alle arti applicate, allo spettacolo dal vivo, alla cinematografia e all'audiovisivo, agli archivi, alle biblioteche e ai musei nonché al patrimonio culturale e ai processi di innovazione ad esso collegati».
Un criterio che rimanda, sia in senso soggettivo che oggettivo, a una ampia corte di attori, azioni e ambiti. E che sopra a ogni altro profilo manifesta una decisa attenzione per tutto ciò che genera innovazione senza però intraprendere, come accade in ambiti contigui, l'accidentata via di una definizione che avrebbe inopportunamente conchiuso e classificato una realtà che, per sua natura, è e deve restare in costante evoluzione.
A favore di questo “novero quasi aperto” di soggetti, le disposizioni ricordate prevedevano che, nel limite di spesa di 500.000 euro per l'anno 2018 e di un milione di euro per il 2019 e il 2020 fosse riconosciuto, fino ad esaurimento delle risorse disponibili, un credito d'imposta pari al 30% dei costi sostenuti per «attività di sviluppo, produzione e promozione di prodotti e servizi culturali e creativi».
Un'idea assolutamente condivisibile, si direbbe cruciale per il nostro Paese, sostenuta da risorse adeguate e crescenti.
Che cosa è successo? Perché ne parliamo al passato?
La ragione, banale e per ciò davvero sconfortante, è che non si è mai approvata la procedura per il riconoscimento della (pur ampia) qualifica di «impresa culturale e creativa» e la definizione dei prodotti e dei servizi culturali e creativi, passaggio indispensabile per l'attribuzione dei benefici fiscali. Ad attivarsi in questo senso doveva essere il Ministro dei beni e delle attività culturali (e, ai tempi, del turismo) con un decreto da adottare entro marzo di quest'anno di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, (sentite le Commissioni parlamentari competenti e previa intesa con la Conferenza Stato-regioni).
Allo stesso Ministro sarebbe poi spettato disciplinare con ulteriore decreto, tra le altre cose, le forme di monitoraggio sul rispetto dei limiti di spesa (che dovevano essere compatibili con la disciplina europea), le procedure per l'ammissione al beneficio, i criteri per la verifica e l'accertamento dell'effettività delle spese sostenute e quelli relativi al cumulo con altre agevolazioni
La responsabilità del passato esecutivo, che aveva predisposto e fatto approvare la manovra, è nei fatti. Sul tema ha però modo di provarsi adesso anche l'attuale Governo, finora del tutto inerte in quest'ambito e che, pur avendone modo e tempo, di certo non si è mosso per riprendere il discorso lasciato in sospeso, anche in ragione del bisogno più volte manifestato di reperire risorse per altre, ben note finalità.

Un'ulteriore occasione giunge invece dall'Unione Europea che, nell'ambito del programma europeo “Europa Creativa , ha dato il via a una azione di sostegno a favore delle medesime imprese che, grazie alla collaborazione tra il Fondo Europeo degli Investimenti, Cassa Depositi Prestiti e Mediocredito Centrale - Banca del Mezzogiorno, porta in Italia a chi opera in questi settori fino a 300 milioni di euro di finanziamenti garantiti e agevolati. Non poco, se si considerano le difficoltà che generalmente registrano queste imprese nell'accesso al credito in ragione loro piccole dimensioni e della natura immateriale dei loro asset e delle loro garanzie.
Che questa sia l'occasione attesa così a lungo per dare forza alla nostra economia arancione?

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* Docente di Diritto dei beni e delle attività culturali presso l’Università Alma Mater di Bologna

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