Tra essenza interna e apparenza esterna, gli autoritratti agli Uffizi
Il volto del Moderno e le sue sfide contemporanee nella più importante collezione del genere
di Luca Siniscalco
3' di lettura
L’autoritratto come figura estetica della modernità occidentale. A indagare questa traccia è la storica iniziativa intrapresa quest’anno dagli Uffizi: il museo fiorentino, infatti, ha inaugurato a luglio 2023 ben dodici sale dedicate all’arte del ritratto d’artista; vi sono esposti, secondo un ordine cronologico, 255 autoritratti di grandi protagonisti dell’arte, dal ‘400 a oggi. Fra gli autori musealizzati, non mancano i più grandi nomi della storia dell’arte moderna e contemporanea: fra gli altri, Canova, Rubens, Rembrandt, Hayez, Delacroix, Böcklin, Pellizza da Volpedo, Previati, Chagall, Wildt, Sironi.
La tragica bellezza dell’umano
A emergere, in questo labirinto di sguardi, è un deposito storico-culturale di inestimabile valore. Al suo centro s’impone la soggettività – grande protagonista della modernità – nelle sue risonanze più trionfali: l’artista come maestro, come autorità, come genio (dall’età romantica in particolare). Ma anche, spicca prepotentemente in molte opere: l’artista come pellegrino, individuo in crisi, polo emotivo transeunte – l’artista, insomma, come uomo, nella sua sfaccettata complessità.Tali vettori estetici ci autorizzano a interpretare il ritratto come conio e insieme orma del Moderno: l’artista non vi appare più quale portatore trionfante del divino nella storia, dismette i panni di strumento di manifestazione della sapienza delle Muse o, in diverso contesto, della “voce” di Dio (ancora per Leonardo da Vinci, l’artista è “nipote di Dio”). Celebra, piuttosto, la tragica bellezza dell’umano, gustato nella sua storicità, individualità e transitorietà.
Canone culturale
Il ritratto fotografa talora la giovinezza, documenta in altri casi la maturità, inscrive spesso la biografia in un canone culturale: è una pennellata sul divenire, un intarsio di esperienze che vengono sottratte alla disgregazione e rese forma estetica e patrimonio artistico. Sempre meno simbolico e metafisico, piuttosto maggiormente inscritto nel linguaggio dell’allegoria o, alternativamente, del naturalismo, il ritratto moderno parla di un volto pienamente umano. Ecco che in questa intuizione è forse riposta la radicalità di un’arte che, a partire dall’Ottocento, è stata sfidata dalla potenza tecnica e mimetica della fotografia, e le è sopravvissuta. “Indebolita” per diffusione e prestigio, l’arte del ritratto (e dell’autoritratto in particolare) ha dovuto reinventarsi, facendo leva su nuovi piani concettuali: i suoi migliori risultati sono stati quelli in cui l’artista, abbandonando la pretesa verista della modernità, ha intuito il senso del ritratto nel suo perenne, costitutivo sottrarsi a qualsivoglia definizione ultima.
Traduzione dell’essenza interna in una apparenza esterna
L’ontologia del ritratto prevede sì, infatti, come acutamente notato dal filosofo Giovanni Gurisatti (nel saggio “Ritrarre è tradurre – Tradurre è ritrarre”), una traduzione dell’essenza interna-invisibile in una apparenza esterna-visibile, ma non in termini di adeguatezza, bensì di traduzione, “come appartenenza polare-circolare, coesistenziale, di identità-nella-differenza”. Nel ritratto si “trattiene” e rivela ciò che si nasconde, ma simultaneamente si denota che lo sfondo a cui il singolo appartiene non può mai essere integralmente esibito. Presente nella sua assenza, concreto nel suo mistero, il volto ritratto nel contemporaneo, coerentemente con la crisi dei fondamenti, assurge a celebrazione dell’inesattezza e della precarietà. Tutte queste dinamiche sono tanto più forti nell’autoritratto. Il selfie, solo apparente rivincita postmoderna di quest’arte, ne tradisce de facto l’essenza più propria.Il percorso espositivo fiorentino, nella sua globalità, offre una rinfrancante e quanto mai inattuale educazione estetica: previdente fu il cardinale Leopoldo de’ Medici, che già nel 1600 ebbe l’intuizione di intraprendere la raccolta dei ritratti d’artista. Oggi gli Uffizi ne possiedono circa duemila, di cui la collezione qui tematizzata costituisce una selezione ragionata, per la prima volta esposta all’interno del normale percorso di visita del museo.Fra i viventi, oltre alle “star” internazionali Bill Viola e Ai Weiwei, di particolare interesse è l’opera di un “primatista”, l’artista più giovane esposto: l’“Autoritratto” (2018) dell’artista italiano Lorenzo Puglisi (1971). Nella tela, la dimensione mimetica è sopravanzata dall’esigenza espressiva: le rapide pennellate bianche su sfondo nero monocromo, che non possono non ricordare l’energia che squarciava – e squartava – l’animo di Francis Bacon, delineano l’essenza e la capacità significante dell’umano. Lo stile di Puglisi imprime essenzialità alla rappresentazione ritrattistica: solo il volto e le mani sono rappresentati, come avveniva nelle scuole dei grandi maestri del passato, che concentravano i propri sforzi su queste componenti specifiche, lasciando spesso le restanti parti alla bottega. L’umano si manifesta così, nell’opera, proprio laddove l’individuo è “meno” individuo: quando l’uomo fuoriesce da sé e si apre, su di un piano orizzontale e verticale, all’alterità, rompendo l’oscurità della tela; quando l’uomo si mostra nel pensiero (il volto rappresentato) e nel gesto (le mani giunte): qui il simbolo trascende, includendola, la carne. Lo sguardo dell’astante si pacifica, la torsione interiore volge alla speranza.
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