IL LAVORO CHE CAMBIA

Tra follower e recensioni: la “maledizione” della riprova sociale

Una scorciatoia mentale ci porta a guardare cosa hanno fatto gli altri e a seguirne le mosse in modo più o meno consapevole

di Lorenzo Cavalieri *

(AFP)

5' di lettura

Veniamo da un anno irripetibile, in cui siamo stati tutti esposti al web in modo onnipervasivo. In questi mesi stando vicino ai miei figli preadolescenti e ai loro amici ho potuto notare quanto per la loro generazione sia decisivo il numero di follower, di visualizzazioni, di “mi piace” nel giudicare qualsiasi cosa. Apparentemente niente di straordinario visto che a quell’età scegliere qualcosa “perché lo fanno tanti altri” è una dinamica naturale, parte del processo di crescita della persona.

Su questo tema recentemente ho ricevuto un messaggio molto carino di una persona (dallo stile desumo adulta) che avendo apprezzato il mio canale Youtube di formazione manageriale mi ha inviato questo commento: “non capisco come questo canale abbia cosi pochi iscritti........è per me un vero mistero”. Parole che da un lato mi hanno inorgoglito, ma dall’altro mi hanno anche fatto immaginare che questo “fan”, per liberarsi dall’illogicità della situazione (“a me piace molto, come mai non piace altrettanto a tanti altri?”), potrebbe essere portato a pensare “lo seguono in pochi, ci sarà un motivo. Forse lo sto sopravvalutando”.

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Si chiama principio di riprova sociale ed è stato splendidamente raccontato dallo psicologo americano Cialdini nel suo long seller “Le armi della persuasione”. Il principio di riprova sociale ci dice in modo banalissimo che prima di fare qualcosa guardiamo a ciò che fanno gli altri e che se qualcuno ci dice “hai visto quante persone l'hanno fatto? Fallo anche tu” tendiamo statisticamente ad aderire, in qualsiasi ambito e per lo più inconsapevolmente. Si tratta di una scorciatoia mentale.

Siccome non ho gli strumenti (o mi costa acquisirli) per valutare ex ante quel ristorante, quell’avvocato, quella tintoria mi baso sul comportamento di altre persone simili a me che hanno avuto bisogno di un ristorante, di un avvocato, di una tintoria. Il presupposto di fondo è che salvo eccezioni il gregge non sbaglia. Niente di nuovo sotto il sole si potrebbe dire.

Eppure osserviamo fenomeni che non ci possono lasciare indifferenti: se mettiamo la nostra vita nelle mani di medici scelti per il numero di mi piace e visualizzazioni, se valutiamo un candidato da assumere anche sulla base dei suoi follower su LinkedIn forse è accaduto qualcosa che va al di là del fisiologico principio di riprova sociale descritto da Cialdini. Il mix di distrazione e pigrizia digitale, di vita trascorsa sui social e di cultura della recensione (tutti possono dire tutto a tutti su tutto) sta creando un mondo in cui qualsiasi stimolo è accompagnato immediatamente dal riferimento al comportamento e/o alle valutazioni degli altri.

Se hanno già deciso gli altri (col loro voto in pagella, col loro like, col loro follow) e la loro decisione può essere verificata immediatamente perché devo fare fatica per decidere in autonomia? Ho l’illusione della valutazione autonoma, ma quanto in realtà vengo condizionato dal rating con cui Amazon ha incorniciato il prodotto che sto considerando? Perché su 5 prodotti proposti e un totale di 100 valutazioni abbiamo 80 valutazioni per un prodotto, 10 per un altro e briciole per gli altri tre prodotti? Perché non abbiamo 20 valutazioni per ciascuno dei cinque prodotti? Quale prodotto sceglierà il centounesimo visitatore?

La differenza col passato è che l’acquisizione della riprova sociale era molto più faticosa. Bisognava chiedere, parlare, telefonare, leggere, ascoltare prima di arrivare a capire qual era il miglior veterinario del quartiere. Nel compiere tutte queste valutazioni il nostro processo decisionale si arricchiva di sfumature e di contenuti. La scelta, pur condizionata senz’altro dalla vox populi, era certamente più responsabile e ponderata. Oggi abbiamo un veterinario che scrive i suoi post e condivide sui social i suoi video. Il bello è che neanche li leggiamo o li ascoltiamo perché se la nostra esigenza è scegliere, alla fine per il nostro cervello pigro conterà prima di tutto il suo seguito e poi (forse) i suoi contenuti.

A questo punto la domanda quasi filosofica diventa “siamo liberi? Siamo in grado di difenderci dal condizionamento degli altri?” La risposta è aperta. Segnalo tre temi di riflessione che dovrebbero preoccuparci:

1) Il nostro spirito critico e la nostra capacità di osservazione sono muscoli. Meno li usiamo più si atrofizzano. Se vedo che hai quindicimila follower entusiasti mentre i tuoi competitor ne hanno a stenti cento, davvero vale pena documentarmi e approfondire per valutare la tua professionalità? Non saprei neanche come farlo visto che anche l’ultima volta che ho scelto un architetto ho utilizzato il criterio della riprova sociale.

2) Sei bravo perché hai dei follower o hai dei follower perché sei bravo? Sicuramente sviluppare la propria rete di follower presuppone delle abilità e genera valore (non solo guadagno di più, ma accedo ad un numero maggiore di informazioni che mi consentono di progettare meglio i miei prodotti/servizi). La seconda parte della domanda è invece più scivolosa. Davvero essere bravi, sfornare un buon prodotto è condizione necessaria per sviluppare un network di follower o avere “buoni voti in pagella”?

Per rispondere bisognerebbe analizzare i criteri che portano ciascuno di noi a mettere un mi piace o a scrivere una recensione positiva. Come tutti sappiamo non sempre essere apprezzati è di per sé un segno di qualità. In alcuni casi addirittura tra qualità e consenso si apre una contraddizione. Lavoro per la qualità o lavoro per i follower? Non sempre le due cose stanno insieme. Immaginiamo un medico, un manager o un professore, consapevoli che la loro performance sarà valutata anche soggettivamente dai loro “clienti”. Di fronte alle tante situazioni del tipo “la cosa migliore da fare per il cliente non incontrerà il consenso del cliente” si sentiranno liberi di scegliere l’interesse del cliente invece del proprio? È un dilemma antico ma che diventa drammatico nell’era della riprova sociale e delle recensioni compulsive.

3) L’espressione “Level playing field” disegna quelle situazioni in cui tutti i giocatori all’avvio della partita hanno le stesse possibilità di successo. Si tratta di un ideale spesso soltanto teorico (il fatto che si giochi 11 contro 11 in campo neutro partendo dallo 0 a 0 non garantisce che il Real Madrid abbia al fischio d’inizio le stesse probabilità di vittoria del Lecce) che è però essenziale per il buon funzionamento della libera concorrenza e quindi dell’economia di mercato.

La riprova sociale è un grande nemico del “level playing field”. Se io e il mio concorrente pubblichiamo un post per promuovere le nostre rispettive gelaterie l’algoritmo premia chi parte da una base di pubblico più ampia. Lo stesso dicasi se io e un mio collega presentiamo contemporaneamente un saggio ad una casa editrice. Se ho 10 recensioni positive avere l’undicesima sarà molto più facile di quanto sarà passare da 1 a 2 recensioni positive.

La riprova sociale costruisce un mondo dove la squadra che ha vinto la prima partita guadagna il diritto a giocare la seconda con un uomo in più e così via. I forti sempre più forti nel contesto di processi di concentrazione del mercato che indeboliscono la concorrenza. La riprova sociale o “effetto gregge” non è un mostro e non è un nemico. È un meccanismo naturale di persuasione reso però potentissimo e quindi pericoloso dal contesto culturale e tecnologico in cui siamo immersi. La buona notizia è che la consapevolezza delle nostre scelte offre a ciascuno di noi preziosissimi margini di libertà e di autodifesa.

* Managing director della società di formazione e consulenza Sparring

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