Trattativa Stato-Mafia, per vertici Ros e dell’Utri indizi senza certezze
La Suprema corte ha depositato le motivazioni delle assoluzioni definitive contenute in 95 pagine. Minaccia dei boss di intimidire lo Stato solo tentata per loro reato prescritto
di Patrizia Maciocchi
I punti chiave
7' di lettura
Le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia non furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, ma costituirono la libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento «che per risalente asserita vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia da precedenti Governi».
Il tentativo di minaccia
La Corte di cassazione, ha depositato le 95 pagine di sentenza con le motivazioni alla base della decisione del 27 aprile scorso sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. La Suprema corte ha confermato la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di “cosa nostra” cercarono di condizionare con minacce i Governi della Repubblica italiana (Governi Amato, Ciampi e Berlusconi), prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa. Nei confronti di tutti gli imputati era stato contestato il reato di minaccia ad un corpo politico dello Stato (articolo 338 del Codice penale). La sentenza, riqualificato il reato nella forma tentata, ha dichiarato la prescrizione nei confronti di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà in relazione alle minacce ai danni dei Governi Ciampi e Amato, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato.Inoltre, ha escluso ogni responsabilità degli ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno – peraltro già assolti in appello sotto il profilo della mancanza di dolo – negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico. Per quanto riguarda le intimidazioni nei confronti del Governo Berlusconi, di cui erano accusati Marcello Dell’Utri e Bagarella, la sentenza si è allineata a quanto deciso dalla Corte di assise di appello di Palermo, che ha riconosciuto l’estraneità del primo e che ha dichiarato la prescrizione del reato nei confronti di Bagarella. I giudici di legittimità hanno avallato la conclusione dei giudici di merito secondo i quali la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta all’Esecutivo, nella sua totalità e non al solo ministro della Giustizia, «da Brusca e Bagarella, con l’intermediazione di Mangano, ma dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato».
Le accuse contro i Ros
Insussistenti per la Cassazione anche le accuse contro i Ros .«Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di “Cosa nostra». Con queste motivazioni la Suprema corte, ha assolto definitivamente, il 27 aprile scorso il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. «Invero, la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di “Cosa nostra” - si legge nella sentenza - non può ritenersi essere stata idonea “ex se” a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza».
Per i giudici l’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno, dopo la strege di Capaci, con Ciancimino aveva lo scopo «di comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di “Cosa nostra” e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale – sottolineano i supremi giudici - non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato».
L’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa «non già a indurre “Cosa nostra” a rivolgere minacce al Governo – affermano i giudici della Cassazione - bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla «contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista» mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina».
Ad avviso dei giudici dalla sentenza impugnata emerge «un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta». ‘
Una volta escluso, dunque, perché non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell’autorità di governo, «risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso – concludono i supremi giudici che hanno assolto gli ex vertici dei Ros con la formula “per non aver commesso il fatto”- Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a “Cosa nostra” è, all’evidenza, insussistente».
L’ approccio storiografico
Dalla Cassazione anche una censura per l’approccio storiografico seguito dai giudici di merito, con sforzi imponenti per fatti poco rilevanti nell’economia del giudizio. «Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale - si legge nella sentenza - profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio».
La Corte di assise di appello, secondo i supremi giudici della Sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo - non ha rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza impugnata, ponendo alla base della dimostrazione della consumazione del reato di minaccia ai danni dei Governi Amato e Ciampi elementi di prova privi di un’adeguata efficacia dimostrativa, «quanto all’avvenuta dinamica di trasmissione della minaccia da Mori al Ministro, e, al contempo, - afferma la Cassazione - non ha dimostrato l’irragionevolezza delle ipotesi ricostruttive antagoniste prospettate dalla difesa sulla base delle prove acquisite al processo».
La tesi della mafia stragista e della mafia pacifista
Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell’appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere «che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa Nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo» di Mori «e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi». La Cassazione rileva che le difese degli imputati avevano fatto presente nel giudizio di appello che «per quanto emerso nel giudizio di primo grado, la consapevolezza della spaccatura interna a Cosa Nostra, tra l’ala stragista e l’ala moderata non sarebbe stata esclusiva di Mario Mori, ma fosse una conoscenza acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi». Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una “profonda spaccatura” negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all’esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di «un profondo contrasto tra mafia stragista ed un’altra, invece, pacifista e quasi rassegnata». Tale spaccatura, secondo le difese, aggiunge il verdetto «sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1993». Per la Cassazione, «fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza» emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 «e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Anche quando il giudice penale «deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’ accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell'imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell’oltre ragionevole dubbio»
La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio
Soddisfatto per il verdetto l’avvocato Vittorio Manes, difensore di Mori e De Donno. «È una sentenza importante per il rigore che segue nella ricostruzione del processo probatorio, distinto dall’approccio stroriografico. La via da seguire deve essere quella di un rigoroso controllo sulla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Un percorso - afferma Manes - certamente seguito dalla Cassazione in una decisione - che costituirà un precedente importante – che ha portato ad affermare l’assenza di ogni prova di concorso nella minaccia mafiosa da parte di Mori e De Donno, anzi l'evidenza della loro estraneità ad una tale condotta».
Sulla stessa linea l’avvocato Francesco Centonze, che ha difeso insieme al collega Tullio Padovani, l’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri «Dopo oltre dieci anni di processi, la Suprema Corte depura i fatti oggetto di accertamento da temi e considerazioni irrilevanti rispetto all’accusa e riporta nei binari costituzionali la cosiddetta Trattativa. Si tratta di una motivazione rigorosa - conclude Centonze - finalmente concentrata sulle imputazioni e sui criteri di accertamento della responsabilità penale». Parla di «trionfo della giurisdizione rispetto ad approcci distorti da infarinature ideologiche e politiche» l’avvocato Cesare Placanica, che ha rappresentato con l’avvocato Gianluca Tognozzi l’ex ufficiale del Ros generale Antonio Subranni.
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