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Editori e aziende tech stanno iniziando a confrontarsi su quello che probabilmente è il tema più delicato riguardo l’impatto dell’intelligenza artificiale sull’industria dell’informazione: la tutela del copyright e la valorizzazione economica dei contenuti.
I chatbot ormai popolari come ChatGpt, sviluppato da Open AI e integrato nella ricerca Bing di Microsoft, oppure Bard di Google, per fornire le loro risposte “imparano” da set di dati che arrivano da una miriade di fonti, tra cui i giornali online. Lo stesso vale per i generatori di immagini, come Midjourney o i software di Adobe.
Con una differenza importante rispetto alla ricerca tradizionale di Google: i chatbot non generano traffico verso le fonti di informazione. Spesso non indicano nemmeno la fonte.
L’impatto di questa tecnologia può dunque essere dirompente. Anche perché la stessa ricerca di Google negli anni ha integrato sempre più risposte complete tra i risultati - come nel box “Le persone hanno chiesto anche” e altre anteprime - rendendo meno necessario il click alla fonte. Per non parlare dei social, che stanno evolvendo verso un modello che genera sempre meno traffico verso gli articoli.
L’incontro editori-aziende IA
Il Financial Times racconta che a maggio, a una conferenza dell’Inma, Robert Thomson, amministratore delegato di News Corp, ha affermato che «la proprietà intellettuale collettiva dei media è minacciata e per questo dovremmo chiedere a gran voce un risarcimento», aggiungendo che l’intelligenza artificiale è stata «progettata in modo che il lettore non visiti mai un sito web giornalistico, minando così fatalmente il giornalismo».
Il quotidiano finanziario dà la notizia dell’incontro tra rappresentanti di OpenAI, Google, Microsoft e Adobe con i vertici di alcuni tra i più grandi editori internazionali, come News Corp, Axel Springer, New York Times e Guardian.
Alcune discussioni hanno ipotizzato un abbonamento che le aziende tech dovrebbero pagare alle media company per l’addestramento sui contenuti. Si sarebbe parlato di una cifra di 5-20 milioni di dollari all’anno.
Un momento più maturo rispetto al passato
Riguardo al possibile esito ci sono ragioni di ottimismo e altre che invitano alla cautela. A essere incoraggiante è il momento in cui avviene questo dialogo. L’arrivo di Google e Facebook ha spiazzato il mondo dell’informazione, favorendo un modello che ha arricchito gli introiti pubblicitari delle due piattaforme anche a scapito degli editori.
Mathias Döpfner, ceo di Axel Springer, è convinto che un accordo si possa raggiungere perché sia gli editori che i policymaker hanno compreso la portata della sfida più rapidamente rispetto all’ultima grande ondata di disruption tecnologica.
Negli anni non è emersa nessuna soluzione salvifica, ma la lunga contesa tra editori e giganti della rete per il pagamento dei contenuti ha portato Google a lanciare Google News Initiative e Digital News Initiative a supporto dell’innovazione degli editori. Poi Google Showcase, con un pagamento diretto alle aziende editoriali che partecipano con le proprie notizie. Soluzioni spinte dalla normativa, in particolare la direttiva Ue sul copyright, approvata nel 2019.
Le ragioni di cautela
Un dirigente anonimo di un gruppo media americano citato da Ft, invece, è più scettico: «Il modo in cui hanno lanciato questi prodotti, la totale segretezza, il fatto che non c’è stata trasparenza, nessuna comunicazione prima che accadesse, sono ragioni per essere piuttosto pessimisti».
L’analista dei media Claire Enders ha invece dichiarato che le trattative sono «molto complicate al momento», aggiungendo che, poiché ogni organizzazione adotta un proprio approccio, un unico accordo commerciale per i gruppi dei media è improbabile e potrebbe essere controproducente.
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