Tre domande chiave per modernizzare la dirigenza pubblica
di Raffaella Saporito
4' di lettura
Nel nostro Paese il dibattito e le riforme in tema di dirigenza si sono concentrati su tre aspetti: il rapporto con la politica, col privato (quanto spazio per dirigenti esterni) e come orientare e incentivare le performance con i premi (e un certo numero di sanzioni). Tre temi cruciali e certo non risolti, ma forse non sufficienti ad affrontare il rinnovamento della dirigenza pubblica. Altri tre spunti, che incrociano anche l’agenda di riforma italiana prevista dal Pnrr, possono ampliare il dibattito.
1 - La dirigenza pubblica è una posizione in organigramma o un ruolo, accompagnato da un profilo di competenze a chiara vocazione gestionale? Parole come management o leadership sono ancora considerate, da una minoranza più retriva, estranee al lessico della Pa. Forse anche per questo i meccanismi di accesso alla dirigenza si sono fatti negli anni sempre più incerti, con concorsi che, da un lato, mostrano poca differenza dai sistemi di accesso alle aree funzionariali, dall’altro sono sovente bloccati dall’ennesimo ricorso a ogni tentativo di innovazione manageriale. Nel pacchetto di riforme introdotte dal DL Reclutamento della scorsa primavera, si prevede una nuova modalità di accesso alla dirigenza (in integrazione all’art. 28 del DLgs 165/2001) che si basa su alcuni presupposti. Visto che il bacino di reclutamento è storicamente la popolazione dei funzionari, è quanto meno paradossale che l’esperienza maturata in questo ruolo non entri nella valutazione. Al punto che per diventare dirigente occorre mettersi in ferie per “studiare”. Inoltre, proprio chi ha già passato un concorso pubblico per diventare funzionario, ha senso faccia un concorso quasi identico per diventare dirigente? Non sarebbe più utile valutare la capacità di leadership e motivazione delle persone verso risultati ambiziosi da parte di chi è chiamato a gestire risorse pubbliche, talvolta ingenti? Queste pratiche sono già largamente in uso non solo nel privato, ma nelle amministrazioni pubbliche di mezza Europa. E a chi crede che sia più oggettivo valutare un compito di diritto amministrativo che il profilo di leadership, rispondo che dipende da chi valuta: se un professore di diritto amministrativo o uno psicologo del lavoro esperto in assessment. Ora la norma citata consente queste innovazioni. Si tratta di darvi esecuzione con competenza e responsabilità, pena trasformare questo strumento in un corridoio preferenziale per pochi raccomandati. Pertanto, la prima domanda cui rispondere è: quali competenze di leadership vogliamo per la dirigenza pubblica?
2 - Di quanta dirigenza abbiamo bisogno? Non ha senso parlare di dimensionamento ottimale fuori dalle specificità di ogni singola amministrazione: in questi anni abbiamo assistito allo svuotamento della dirigenza negli enti locali più piccoli, mentre non si è arrestato il processo di iper-frammentazione organizzativa delle strutture centrali delle amministrazioni dello Stato, dove capita non di rado che un dirigente di seconda fascia sia a capo di strutture di poche unità. Più che manager, questi dirigenti sono professional con raffinate expertise, ma poca responsabilità gestionale. Se da un lato sono figure necessarie, c’è da chiedersi se vale la pena frammentare la struttura per giustificarne la presenza in organigramma, o non renderebbe le organizzazioni davvero più agili e con minori problemi di coordinamento la presenza di meno dirigenti, a capo di strutture più ampie, affiancati da più professional, con retribuzioni adeguate al ruolo. La quarta area introdotta dai contratti sembra offrire questa opportunità, ma – ancora una volta – a fare la differenza sarà come questi spazi di azione verranno tradotti in pratiche nei contratti integrativi.
3 - Come rendere la dirigenza pubblica più femminile? Le donne sono maggioranza nella Pa (56%), ma non esprimono ancora dirigenti in proporzione (38%). Non si dica che le donne cercano nel pubblico un carico di lavoro più compatibile con la cura familiare a discapito della carriera. Indagini recenti mostrano che le donne aspirano soprattutto alla possibilità di portare un contributo utile alla comunità. Anche i dati sulle professioni pubbliche rappresentano che le donne vogliono avere ruoli che contano, come in magistratura (54% di donne) e nella carriera prefettizia (58%). Restano indietro, invece, nei giochi di potere che portano alle posizioni di vertice. La già citata norma che rinnova le modalità di accesso alla dirigenza può favorire le donne, in quanto potranno competere sulla base di cosa sanno fare, invece che del tempo a disposizione per studiare. Ma questo solo se i meccanismi di valutazione delle esperienze pregresse non riprodurranno le diseguaglianze delle opportunità che già oggi sono il principale limite alla loro crescita. Pertanto, cominciare a ragionare in termini di quote anche in questo ambito non deve essere un tabù. E non solo a tutela delle pari opportunità delle donne, principio per altro alla base di tutto il Pnrr, ma anche a tutela dello sviluppo complessivo: la ricerca mostra che le donne tendono a essere più attente alle implicazioni sociali e educative delle politiche pubbliche. Due temi prioritari nel nostro Paese.
Sda Bocconi
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