Tre mosse buono, una mossa volgare
Il 24 luglio a Tokyo avrebbero dovuto aprirsi le XXXII Olimpiadi. Per non rinunciare a quel sogno il magazine del Sole 24 Ore ha chiesto a cinque grandi scrittori di narrarci cinque atleti: sono le nostre Olimpiadi per l'estate 2020. Dopo Sandro Veronesi, Paolo Cognetti , Walter Siti e Giacomo Papi, questa è l’ultima puntata
di Antonio Franchini
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Uchi mata è una tecnica con la quale si falcia l'interno coscia dell'avversario e lo si proietta al suolo. Tra le quaranta tecniche codificate da Jigoro Kano, il fondatore del judo, è una delle più usate nell'agonismo. È il tokui waza, la tecnica preferita, di molti atleti. Se si esclude lo spettacolare momento della verità – la proiezione che scaglia uno dei due lottatori in aria e lo fa ricadere con entrambe le spalle al suolo mettendo fine al combattimento – l'incontro di judo appare al profano una competizione di strattoni effettuata afferrandosi per il bavero e la manica di un grezzo pigiama. Non è così.
Dietro quegli strappi si nascondono strategia e tecnica raffinata. Una proiezione prevede tre passaggi: lo squilibrio dell'avversario, il contatto del nostro corpo col suo e la torsione che produce la caduta. Se manca uno solo di questi tre passaggi non c'è niente. Per rovesciare qualcuno bisogna smuoverlo e abbracciarlo. C'è un momento, la fase centrale della tecnica, in cui i lottatori sono uniti, avvinti come in un atto amoroso. Nella cultura giapponese ogni gesto dell'uomo, ogni suo atto si potrebbe suddividere in tre precisi istanti.
In Svelare il Giappone Mario Vattani, conoscitore profondo del Sol Levante, scrive: «Accenno, pausa, esecuzione. Questo è il ritmo giapponese, la formula che si ripete in tutte le cose, dall'alzarsi in piedi da in ginocchio, al riporre la spada nel fodero, al tagliare un dolcetto. Eseguire un'azione con una sola mossa è volgare e sbrigativo. Può causare sorpresa, creare malintesi».
Ogni tecnica ha la sua contro tecnica, quella di uchi mata si chiama uchi mata sukashi o sukashi nage. Ho sentito dei judoka romani ribattezzarla scassinaghe. È un nipporomanesco molto divertente perché vuol far pensare a qualcosa che si rompe, a un piano che va in rovina. È la tecnica con cui Pino Maddaloni ha vinto l'oro olimpico a Sydney. Apparentemente è un gesto semplicissimo, una schivata del bacino dell'avversario seguita da un contro squilibrio, ma eseguirlo contro un campione che entra a tuono e tira uchi mata a ripetizione da quando si sveglia a quando va a dormire è un'altra cosa.
Anche de ashi barai, la spazzata del piede che avanza, la tecnica che Jigoro Kano considerava “sublime” perché contiene tutta l'essenza del judo, sarebbe facilissima. Quando riesce, una volta su mille, l'avversario vola, letteralmente, ma provate a eseguirla. A eseguirla veramente, contro un avversario forte, non contro un compagno che si rende disponibile a facilitarvi il compito. Ciò che sembra facile non lo è mai, se non è preparato con lo studio di una vita. E Pino Maddaloni sale sul tatami per la prima volta a due anni.
La sua storia e quella della sua famiglia, dei suoi fratelli tutti judoka di altissimo livello, di sua sorella, del suo leggendario papà Gianni, ‘O Mae', il maestro, che insegna judo a Scampia e crea ragazzini campioni sottraendoli alla droga e alla camorra, è stata raccontata un'infinità di volte da servizi giornalistici, libri, film. Come sono in tanti a sapere che Pino da piccolo cadeva, inciampava sempre ed è diventato campione in uno sport in cui l'equilibrio è tutto. Judo alla lettera significa “via della cedevolezza” ed è così, in principio, ma se immaginate, come vuole il luogo comune, una disciplina morbida, dove un praticante mingherlino sconfigge un gigante con due o tre “mosse” siete del tutto fuori strada.
Il judo come sport competitivo è una pratica durissima, che si sconta in ogni fibra del corpo: saltano ginocchia, polsi, dita, spalle. Il randori, secondo Jigoro Kano, è un confronto leale che però deve servire ai lottatori per crescere, per migliorarsi. Se uno dei due è entrato bene, ha eseguito la tecnica con efficacia e sincerità, l'altro dovrebbe cedere. Dovrebbe. Ma le gare non sono randori, sono shiai, alla lettera: combattimento a morte. E che non si muoia veramente non significa niente, perché si soffre, e ci si fa tanto male.
Nella palestra dei Maddaloni a Scampia è esposto, come in molte palestre, il cartello con i valori del judo: fedeltà, coraggio, umiltà, altruismo, temperanza… È strano vedere che cosa succede quando un'arte così profondamente orientale si trapianta in altre culture tanto diverse ed è proprio vero, come sosteneva un mio amico, che se pratichi una disciplina giapponese per tutta la vita, quasi ti vengono gli occhi a mandorla. I valori più cari a Kano erano la sincerità e la lealtà, e a me sembra di riconoscere negli occhi di Pino Maddaloni la stessa modesta, trasparente fierezza che ho visto nello sguardo di tanti giovani compagni di allenamento. I suoi occhi poi sono stati capaci di piangere sul podio, ma quelle lacrime non derivano dal sentimentalismo napoletano. Vengono da molto più lontano, dalla sincerità che Jigoro Kano, il quale era anche un politico e un riformatore del Giappone, vedeva come valore fondante del cittadino ideale. E dalla tradizione degli eroi, che di piangere non si sono mai vergognati.
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