Il libro

Troppi governi di breve vita, l’anomalia italiana e il decennio d’emergenza

di Roberto D'Alimonte e Giuseppe Mammarella

(ANSA)

4' di lettura

Questo libro copre gli ultimi dieci anni della storia politica del nostro Paese, quelli che vanno dal governo Monti (novembre 2011) al governo Draghi (febbraio 2021). Non è un caso che l’uno e l’altro siano governi nati in situazioni di emergenza e guidati da figure tecniche, due economisti estranei al mondo dei partiti. È il sintomo della difficoltà del nostro sistema politico a dar vita a maggioranze stabili e responsabili. E questo, insieme al declino economico e al debito pubblico, continua a essere uno dei problemi di fondo del Paese. È difficile credere che tra la debolezza della politica e quella dell'economia non esista un rapporto.

Nei dieci anni l’Italia ha avuto 7 governi e 6 presidenti del Consiglio. La Germania ne ha avuti tre con un unico cancelliere. In Francia i presidenti della Repubblica sono stati tre. I Paesi Bassi hanno avuto tre governi con un unico premier. In Spagna i governi sono stati 4 con due primi ministri. La durata media dei nostri governi dal 2011 al 2021 è stata di circa 17 mesi. Ma escludendo il governo Renzi che ha avuto una durata anomala (quasi tre anni), per gli altri si scende a una media di undici mesi e pochi giorni. In passato il problema è stato lo stesso. Negli anni della Prima Repubblica, dal 1948 (De Gasperi V) al 1993 (Ciampi), i governi sono stati 47, con una durata media inferiore ai dodici mesi. Sono stati il governo di Bettino Craxi (agosto 1983-giugno 1986) e, tra quelli della Seconda Repubblica, il secondo governo Berlusconi (giugno 2001-aprile 2005) a segnare per un sistema come il nostro un vero e proprio record, ma non si può non sottolineare che nella maggioranza delle democrazie europee, dove i governi durano di solito per l’intero mandato, queste durate equivarrebbero a un segnale di crisi. Da noi invece, il bilancio complessivo dal 1948 a oggi indica 64 governi in 73 anni con una durata media di poco superiore ai dodici mesi. Un po’ meglio la Seconda Repubblica, nonostante la maggiore frammentazione del sistema partitico, ma in ogni caso si tratta di un record negativo tra le grandi democrazie occidentali. I governi duraturi, quelli di Craxi, Berlusconi e Renzi, pur a prescindere dai diversi orientamenti e dai rispettivi contesti, si sono tutti affermati come artefici di importanti programmi riformistici, pur differenziandosi per qualità e indirizzi. Ma Craxi, Berlusconi e Renzi, nel bene e nel male, sono “anomali” nella nostra storia politica. Esclusi questi casi, i nostri governi hanno avuto complessivamente una durata che non solo non permette di governare ma neppure di avviare un’azione che abbia un minimo di prospettiva. Tanto più in un contesto in cui alle lentezze del governo si aggiungono quelle di organi legislativi che, ingolfati da progetti di legge, hanno vita difficile e spesso, di legislatura in legislatura, arrivano alla fine del loro percorso con un'impostazione molto diversa da quella iniziale.

Loading...

Con l’avvento della Seconda Repubblica il problema si è aggravato, nonostante la durata media dei governi si sia allungata. Infatti, dal 1948 al 1992 i governi sono stati instabili, ma i governanti no: l’instabilità degli esecutivi era almeno in parte compensata dalla continuità dei governanti. Gli stessi partiti (e spesso le stesse figure politiche) sono rimasti a lungo al potere in un sistema bloccato dall’impossibilità di alternanza. Con il crollo della Prima Repubblica e l’avvento della Seconda è arrivata l’alternanza, ma questo cambiamento, per molti aspetti positivo, ha aggravato il problema dell’instabilità dei governi facendo venire meno la continuità dei governanti.

All’estero quella dei governi che si succedono a ritmi annuali o quasi è vista come una delle «particolarità italiane». C’è da chiedersi perché nei settantacinque anni della Repubblica non si sia riusciti ad affrontare il problema. Sembra incredibile ma resta il fatto che, nonostante il passaggio di tre generazioni, il rischio di una «deriva autoritaria» è ancora considerato una minaccia potenziale da certe élite culturali del nostro paese, per cui «l’uomo solo al comando» potrebbe rivelarsi l’antesignano di una nuova dittatura. Ma oggi, nel pieno di una straordinaria rivoluzione tecnologica, le minacce sono altre e proprio per la loro natura richiederebbero da parte dell’autorità politica, regolarmente eletta e autenticamente rappresentativa, una capacità di intervento che affronti i problemi in modo rapido ed efficiente e con un orizzonte temporale almeno di medio periodo. E invece non si è fatto nulla. Nasce il dubbio che l’instabilità dei governi, giustificata dal rischio della deriva autoritaria, in realtà nasconda soprattutto una preferenza per governi deboli e quindi incapaci di incidere sulle rendite e i privilegi accumulati nel tempo dalle varie corporazioni in cui si articola una società frammentata e disarticolata come la nostra.

In ogni caso, qualunque sia il motivo è arrivato il momento, pena il collasso del sistema politico e il perdurare del declino del Paese, di riprendere quelle proposte e quei progetti che sono stati oggetto in anni non lontani di dibattito e di sostegno non simbolici. La fine del bicameralismo paritario, che era il minimo di una riforma istituzionale, non basta più a sanare l’anomalia italiana. È necessaria una riforma del potere esecutivo che, proprio nel momento in cui si riparla di nuovi ruoli da attribuire allo Stato, dia a chi lo rappresenta il potere di agire in tempi ragionevoli e con gli strumenti necessari. Così come è diventata urgente, ancor più dopo l’esperienza della pandemia, la ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni con una revisione del Titolo V della Costituzione, anche alla luce dei numerosi interventi della Consulta in materia.

Per un governo migliore occorrono regole migliori delle attuali. Occorrerebbe anche una diversa cultura della nostra classe politica; ma su questo fattore è difficile intervenire in tempi brevi, mentre sulle regole si può. E questo anche perché esistono validi contrappesi per evitare rischi autoritari a cominciare dal mantenimento della forma di governo parlamentare. Ne guadagnerebbe la nostra democrazia, offrendo ai cittadini che si recano alle urne gli elementi per un giudizio oggettivo sul lavoro effettivamente svolto da chi governa e non sulle promesse mancate. E ne guadagnerebbe certamente il Paese, che finalmente potrebbe avere governi in grado di programmare il futuro e capaci di farsi valere più efficacemente nelle sedi che contano.

Riproduzione riservata ©

loading...

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti