Trump e Ue accomunati da un insolito destino: politica estera cercasi
Gli Usa sono stati la potenza egemone del secondo dopo guerra. A partire dall’invasione dell’Iraq (2003), però, non sono stati più capaci di esercitare quella egemonia
di Sergio Fabbrini
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La decisione del presidente Trump di uccidere Qassem Suleimani ha “scrollato” (secondo Judy Dempsey) le leadership europee e le loro opinioni pubbliche.
La discussione che ne è seguita, però, ha riguardato la legittimità o la necessità di quella decisione, non già perché quest’ultima non avesse una giustificazione strategica. Di questo occorre invece discutere. Il mio argomento è che non l’ha avuta, non solo per le caratteristiche personali del presidente americano ma soprattutto per le difficoltà politiche degli Stati Uniti (Usa). Una difficoltà preoccupante se si considera, a sua volta, l’impossibilità dell’Unione europea (Ue) a esercitare un ruolo internazionale. Mi spiego.
Gli Usa sono stati la potenza egemone del secondo dopo guerra. La loro egemonia è stata sostenuta da un consenso interno per un sistema internazionale retto da organizzazioni multilaterali (il cosiddetto liberal international order). A partire dall’invasione dell’Iraq (2003), però, gli Usa non sono stati più capaci di esercitare quella egemonia, per i cambiamenti intervenuti internazionalmente ma anche per la disintegrazione del consenso bipartisan interno. Paradossalmente, quei cambiamenti avvennero dopo la fine della Guerra Fredda (1989-1991), una fine che aveva reso possibile l’esercizio dell’egemonia americana a livello globale.
Negli anni Novanta del secolo scorso, infatti, gli Usa erano divenuti la “nazione indispensabile” (per dirla con Madeleine Albright) per risolvere tutti i problemi internazionali, dalla crisi finanziaria dei Paesi dell'est asiatico alla disintegrazione etnico-religiosa della Jugoslavia. In quegli anni, Charles Krauthammer parlò di un Momento Unipolare, Frank Fukuyama della Fine della Storia. Tuttavia, proprio in quello stesso decennio, emersero divisioni profonde nella politica americana, con l’elezione (non maggioritaria) di Bill Clinton nel 1992, il tentativo di impeachment ai suoi danni (non riuscito) tra il 1998-1999 e quindi la contestata elezione di George W. Bush nel 2000. Divisi all’interno e illusi dalla propria potenza, gli Usa non si accorsero di ciò che avveniva all’esterno. Come la crescita del nazionalismo russo, incentivato anche dall’estensione a oriente della Nato.
Oppure la crescita del potere della Cina o ancora la nascita di un fondamentalismo islamico in Medio Oriente con proiezioni militanti nei Paesi occidentali. L’attacco dell’11 settembre, per le sue proporzioni e conseguenze, fu un dramma materiale ma anche psicologico. La reazione della presidenza di George W. Bush (2001-2008) assomigliò a quella (per dirla con Fareed Zakaria) di “un leone ferito che non sa perché è stato attaccato”.
La presidenza di Barak Obama (2009-2016) cercò di fermare la deriva verso la politica del colpo su colpo, ma non poté iniziare una nuova strategia per via della polarizzazione che si era ulteriormente radicalizzata tra i due partiti. Una polarizzazione istituzionalizzata attraverso il controllo, da parte dell’uno o dell’altro partito, dell’una o dell’altra delle istituzioni separate del governo (Presidenza, Camera e Senato). Di cui, oggi, abbiamo un ulteriore esempio, con il tentativo di impeachment del presidente repubblicano da parte della Camera democratica, difeso a sua volta (contro ogni evidenza) dal Senato controllato dal suo partito. Nel frattempo, la Cina ha continuato ad allargare la propria sfera d’azione, mentre altre potenze regionali (Russia, India e Turchia) hanno occupato gli spazi lasciati vuoti dalla paralisi americana.
La disfunzione politica di Washington D.C. è preoccupante anche perché si intreccia con la disfunzione istituzionale di Bruxelles. Nonostante gli appelli affinché “l’Europa parli con una sola voce”, la logica istituzionalizzata dai Trattati dell’Ue impedisce che ciò avvenga. Con il Trattato di Maastricht (1992), l’Ue si pose il problema di dotarsi di una politica estera comune, non già singola. Fu allora creato un regime decisionale di Politica estera e di sicurezza comune (Pesc, cui poi si aggiunse la Politica di difesa e sicurezza comune, Psdc) in cui le decisioni sono prese dai governi nazionali attraverso un coordinamento volontario (cioè, all’unanimità). Si tratta di decisioni di natura politica (si chiamano azioni e posizioni) esterne al processo legislativo ordinario.
La decisione (con il Trattato di Amsterdam del 1999) di introdurre il ruolo dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, con il doppio ruolo di presidente del Consiglio dei ministri nazionali degli esteri e di vicepresidente della Commissione europea, era finalizzata ridurre la natura intergovernativa del processo decisionale. Ma non ha funzionato.
Le principali decisioni di politica estera e di sicurezza continuano a essere prese dai governi nazionali, specialmente nelle questioni più rilevanti. Tuttavia, poiché i governi nazionali hanno agende politiche e interessi geo-economici divergenti, il loro coordinamento è improbabile nei contesti di crisi. In particolari situazioni si sono formate cooperazioni politico-militari rafforzate o alleanze tra Paesi volenterosi, ma ciò non è stato possibile quando in gioco c’era l’interesse specifico di un Paese che conta. La disfunzione istituzionale della politica estera dell’Ue non si risolve con gli inviti retorici “a parlare con una sola voce”.
Insomma, la decisione di Trump è preoccupante perché non è giustificata da una strategia politica. In un contesto internazionale in cui si sono affermate nuove potenze, gli Usa non hanno la capacità politica interna per elaborare una nuova visione esterna, ma altrettanto liberale di quella precedente.
Trump, con la sua incultura politica, ne è l’evidenza (non la causa). I vuoti lasciati dal declino dell’egemonia americana sono sempre più occupati da potenze portatrici di visioni illiberali. La Cina è un regime dittatoriale anche se aperto economicamente, la Russia, l’India e la Turchia sono autoritarismi competitivi interessati ad espandere la loro influenza regionale. La disfunzione politica degli Usa e quella istituzionale dell’Ue hanno consentito che si formasse un mondo di nessuno (per dirla con Charles Kupchan) in cui il principio liberale del mutuo riconoscimento tra Paesi non è più garantito. Ecco cosa dovrebbe preoccuparci.
Per approfondire:
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