Trump rinforza l’impegno in Afghanistan. Ma non basta
di Roberto Bongiorni
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Prima contrario, poi riluttante, infine tornando indietro sui suoi passi, anche il presidente americano Donald Trump ha compreso che se davvero vuole arrivare a quella che lui ama definire «la vittoria finale», la guerra in Afghanistan non si vince solo dal cielo. In altre parole occorrono più stivali –americani - sul terreno. Con tutte le incognite del caso.
Gli attentati che si susseguono con un'inquietante cadenza, settimana dopo settimana, in tutte le regioni del Paese -e sempre più spesso nella capitale Kabul- suggeriscono una presa di coscienza: da quando le truppe internazionali da combattimento della Missione Nato (Isaf), hanno completato il ritiro dal Paese, alla fine del 2014, la situazione è tutt'altro che migliorata. Anzi, non è fuori luogo sostenere che sia peggiorata.
Ulteriore elemento di preoccupazione è che la capitale Kabul, nonostante i grandi sforzi per renderla meno vulnerabile, viene ripetutamente colpita.
Il gravissimo attentato di domenica contro l'Hotel Intercontinental – il secondo in sette anni - è solo l'ultimo di una lunga serie. Era un edificio superblindato, considerato inviolabile. Ma come molti altri luoghi strategici è stato attaccato.
Un caos controllato
Il Governo afghano, sostenuto dalla Comunità internazionale, fatica a controllare due terzi del Paese. Il resto è in mano ai Talebani o a nuovi gruppi di estremisti, prima fra tutti i feroci jihadisti dell'Isis. Loro hanno vita facile nelle aree rurali e nelle regioni montagnose.
È una situazione di pericoloso stallo. Le forze straniere –quasi tutte con compiti di addestramento dell'esercito afghano- sono inadeguate per numero. Insomma, sono sufficienti a non far vincere la guerra ai Talebani, ma insufficienti a fargliela perdere.
Insomma, in Afghanistan per ora regna un “caos controllato”.
Di chi è la colpa? Nessuno può contestare quanto il Governo afghano sia ancora fragile. L'autorità del presidente Ashraf Ghani, per quanto sostenuto dalla Comunità internazionale, è in alcune regioni compromessa da rivalità tribali e claniche. Quanto all'esercito nazionale, è ancora male addestrato e non all'altezza di un compito così arduo.
L'invio di rinforzi americani
Rimangiando quanto aveva precedentemente dichiarato in campagna elettorale, Trump ha dunque innalzato il numero di militari in Afghanistan portandoli da 8.500 ad almeno 14 mila effettivi. Ma nei corridoio del Pentagono già circola insistente la voce di un ulteriore rinforzo di mille effettivi.
Basteranno ad imprimere una svolta al conflitto più lungo e costoso mai combattuto dagli Stati Uniti ?
Se consideriamo che a cavallo del 2009 e del 2010 il totale delle truppe Nato arrivava a 150mila effettivi (oltre 100mila soldati americani) e l'obiettivo di sconfiggere i Talebani non è stato raggiunto, propendere al pessimismo è un atteggiamento ragionevole.
Anche perché da tre anni è sceso in campo un altro brutale nemico: lo Stato islamico. La crescente penetrazione dei gruppi legati all'Isis è una realtà di cui occorre prendere atto.
L'Afghanistan potrebbe tornare a divenire quello che era 18 anni fa: un paradiso per gli estremisti islamici pronti a sferrare attacchi nel mondo. E se prima era la volta di al Qaeda, oggi è la volta dell'Isis. Proprio quello che non vuole Trump.
La nuova strategia: più forze speciali e meno limiti al Pentagono
Consapevole che l'Afghanistan è una crisi a cui un presidente americano non può sottrarsi, la sua strategia è cambiata. Più liberta ai bombardamenti aerei –con buona pace dei “danni collaterali” (vittime civili uccise per errore)– e piccoli gruppi di forze speciali sotto copertura nelle regioni più difficili.
Anche se questo cambio di tattica dovesse apportare miglioramenti sul terreno , la risoluzione del caos afghano passa necessariamente anche attraverso il coinvolgimento delle potenze regionali.
Da alcuni anni la Russia sta cercando di rafforzare la sua influenza in quest'area. La Cina guarda con molto interesse alle potenzialità commerciali del Paese, ed ai suoi ricchi giacimenti di materie prime.
I rischi di inimicarsi il Pakistan
Quanto al turbolento Pakistan, il governo di Islamabad continua a giocare un ruolo ambiguo: ufficialmente combatte contro i Talebani a fianco degli Stati Uniti. Dal 2011 avrebbe perso 80mila persone (tra civili e militari) nella guerra al terrorismo. Ma alcuni rami dei suoi potenti servizi segreti sono stati, e sono tuttora spesso collusi con gli estremisti. Una situazione che, per un presidente non certo incline alla diplomazia, era divenuta insostenibile. Il primo gennaio Trump ha dunque rotto gli indugi annunciando la sospensione degli aiuti militari al Pakistan. A suo modo, con un tweet. «Gli Usa hanno follemente dato al Pakistan più di 33 miliardi di dollari in aiuti negli ultimi 15 anni, mentre loro ci hanno ingannati, pensando che i nostri leader fossero sciocchi».
Nel 2011, i sostegni statunitensi avevano superato il miliardo e mezzo di dollari. Col passare degli anni, e col crescere della sfiducia, la cifra è diminuita, scendendo 1 miliardo di dollari nel 2016 e poi riducendosi ancora nel 2017. Per ora Trump ha deciso di tagliare 255 milioni di dollari.
Per quanto ambiguo, il Pakistan tuttavia rappresenta una via di transito indispensabile per la campagna militare in Afghanistan.
Nessun presidente americano ha coltivato grandi simpatie per Islamabad, ma comprendeva che era meglio avere accanto un alleato instabile e ambiguo piuttosto che un potenziale rivale, i cui servizi segreti sono ben radicati tra i gruppi estremisti.
Una guerra che non si vince solo militarmente
Infine un'ultima considerazione. La campagna afghana non si vince solo militarmente. È necessario un reale processo di counter insurgency per portare dalla propria le popolazioni che vivono nelle aree controllate dai ribelli, ed offrono loro (spesso costrette da minacce) anche un supporto logistico. È altresì necessario investire in progetti educativi e infrastrutturali, rendendo più credibili e trasparenti le istituzioni, ancora oggi invise a molti afghani perché corrotte.
Ma forse per Trump questi sono aspetti secondari.
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