Turchia, Pil e riserve ufficiali non bastano: la lira resta vulnerabile
Le mosse di Erdogan puntano a una crescita del prodotto interno lordo del 5% nel 2020. Ma per centrare l’obiettivo servirebbe una «cura da cavallo» sull’economia locale
di Marcello Minenna
5' di lettura
A pochi mesi dalle ultime elezioni amministrative e dalle connesse turbolenze sulla lira, la situazione macroeconomica e finanziaria della Turchia rimane controversa. Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un piano di «ritorno forzato» alla stabilità e alla crescita. E, in effetti, di recente il paese ha mostrato segnali di ripresa chiudendo il terzo trimestre 2019 con un +0,9% su base annua, dopo i tre trimestri di contrazione seguiti alla crisi valutaria del 2018.
Le ambizioni di Erdogan
Ma, come noto, il leader politico turco ha ben altre ambizioni: dal 2010 il suo paese è cresciuto in media del 5,7% annuo (circa 6 volte la performance degli ultimi 12 mesi). E per il 2020 Erdogan mira a riportare l’economia sugli scudi con un target di aumento del Pil pari al 5%. La ricetta però non sembra cambiata più di tanto e si affida ancora una volta a una forte accondiscendenza monetaria e creditizia con le banche statali che finanziano l’economia reale (compresi gli zombie businesses) attingendo a piene mani la liquidità necessaria dalla banca centrale.
Cura da cavallo cercasi
Il problema è che per raggiungere obiettivi così ambiziosi in così poco tempo serve una cura da cavallo. Dopo essere stata forzata, nella difesa del cambio, ad aumentare il tasso d’interesse di riferimento (cioè il tasso per i pronti contro termine – c.d. repo – a una settimana) dall’8% al 24% in pochi mesi (nonché, in extremis, a congelare la liquidità in lire sul mercato spingendo il tasso overnight al 1350% per impedire agli speculatori di vendere lire allo scoperto), dallo scorso luglio la banca centrale turca (Cbrt) ha inanellato una serie di drastici tagli dei tassi d’interesse fino ad arrivare, a fine ottobre, al 14% sul repo a una settimana. Complessivamente, quindi, in appena 3 mesi, si è passati dal 24% al 14% con un calo del 10%. Mosse ardite da parte di un’autorità monetaria il cui operato è condizionato dai desiderata del premier e che finora si è trincerata dietro la scusa di un’inflazione sotto controllo.
Il nuovo taglio agli interessi
Questa settimana è arrivata l’ennesima conferma: il 12 dicembre, infatti, la banca centrale turca ha nuovamente tagliato i tassi d’interesse di 200 punti base – portandoli al 12% – nonostante l’ultima rilevazione relativa al mese di novembre abbia indicato una ripresa dell’indice dei prezzi al consumo (+10,56%). Del resto, la Cbrt da tempo opera in modo poco ortodosso per contemperare la difesa del cambio e le richieste di Erdogan. Come evidenziai all’epoca sul Sole24Ore, dallo scorso aprile ha fatto ampio ricorso agli swap di valuta a una settimana in contropartita con le banche domestiche perseguendo così più fini: supportare il fabbisogno di liquidità in lire degli istituti di credito domestici, ridurne la dipendenza dai mercati esteri così riducendo la volatilità dei cambi sui mercati e “abbellire” le proprie riserve valutarie (decurtate nell’impresa di sostenere il valore della lira) tramite opportune scelte di contabilizzazione di questi swap nel proprio bilancio.
La strategia dello swap
Dopo aver raggiunto un controvalore cumulato intorno ai 14 miliardi di dollari, dall’estate scorsa l’ammontare in essere di questi swap si è sgonfiato fino ad azzerarsi. Ma questo solo perché l’autorità monetaria, da inizio agosto, ha deciso di rimpiazzarli con swap di maggiore durata (1, 3 e 6 mesi) in modo da garantirsi la relativa quantità di valuta estera per un periodo di tempo più lungo. In più, per rendere ancora meno trasparente questa operatività, da ottobre le relative transazioni si svolgono presso il mercato swap della Borsa di Istanbul col risultato che in pochi sanno a quali condizioni vengano concluse. Incrociando i pochi dati disponibili emerge che a fine ottobre nel bilancio della banca centrale turca il controvalore di questi swap era di 13,8 miliardi di dollari, lo stesso ordine di grandezza dei vecchi swap a una settimana il che conferma la staffetta tra le due prassi. Inoltre, sempre per rimpinguare le proprie riserve valutarie, la banca centrale turca continua a fare affidamento anche sulle linee swap emergenziali con paesi «amici»: a giugno ha attinto 1 miliardo di dollari da quella aperta con la Cina nel 2012 (e mai utilizzata prima), mentre questo novembre ha alzato di 2 miliardi il tetto di quella col Qatar, portandola a 5 miliardi di dollari dai 3 originari (e già utilizzati).
De-dollarizzando la Turchia
In totale, tra linee swap emergenziali e swap valutari alla Borsa di Istanbul, si arriva a 17,8 miliardi di dollari, vale a dire oltre il 23% del totale delle riserve valutarie lorde (pari a $76,5 miliardi) della banca centrale turca. Il razionale di queste mosse è duplice: da un lato ricostituire le riserve per avere a disposizione un cuscinetto più robusto in caso di nuovi attacchi contro la lira e dall’altro stimolare la de-dollarizzazione dell’economia turca in coerenza con il riposizionamento geo-politico del paese e con le sue aspirazioni militari e territoriali. Le stesse motivazioni, del resto, spiegano anche il significativo innalzamento del coefficiente di riserva sui depositi in valuta (+4% tra maggio e settembre) per costringere le banche a parcheggiare liquidità in moneta estera presso la banca centrale e la rapida crescita delle riserve auree: in appena sei mesi (da giugno a novembre) sono aumentate di quasi il 30% in termini monetari arrivando a un controvalore di 26,5 miliardi di dollari.
La valuta resta vulnerabile
Nonostante l’ampio arsenale dispiegato dalla sua banca centrale, la Turchia rimane però vulnerabile sul piano valutario, dato l’elevato debito estero del paese di cui circa ¼ a breve scadenza (fino a 1 anno) e denominato prevalentemente in dollari. Nel dettaglio, il debito estero a breve ammonta a 120 miliardi di dollari, ed è quindi superiore di circa 20 miliardi di dollari al totale delle riserve valutarie lorde e di quelle auree. Questo gap – consolidatosi progressivamente nell’ultimo biennio – minaccia la resilienza della lira dal momento che un rapporto tra riserve internazionali e debito estero a breve inferiore ad 1 aumenta il rischio di crisi estere come prescrive la nota regola di Greenspan-Guidotti.
Peraltro, è evidente che – a meno dell’imposizione di controlli sui capitali – la regola in questione individua solo un floor ottimale per il rapporto in questione. Infatti, quando una valuta entra in tensione, alle pressioni svalutative legate al rimborso dei debiti esteri si sommano quelle derivanti dalla fuga dei capitali e dalla ricerca di immunizzazione dei risparmiatori domestici ad esempio attraverso l’aumento dei depositi in valuta estera. Tenuto conto di questa ulteriore variabile, la lira non è ancora al riparo da attacchi speculativi di breve-medio termine, tanto più che – al netto delle linee swap con altre banche centrali e degli swap valutari alla Borsa di Istanbul – le sue riserve internazionali lorde scendono a circa 85 miliardi di dollari che diventano circa la metà se decurtati della quota corrispondente alla riserva in valuta delle banche commerciali presso la Cbrt. L’ennesima sforbiciata ai tassi di giovedì scorso – che certamente non sosterrà il valore della lira sul mercato dei cambi – potrebbe presto rivelarsi un azzardo senza contare che in questi giorni Erdogan ha dichiarato che nel 2020 si tornerà a tassi d’interesse a una sola cifra.
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