Turchia in recessione, duro colpo per Erdogan
di Roberto Bongiorni
3' di lettura
Tutti i nodi vengono al pettine. Dopo una crescita impetuosa, probabilmente gonfiata, che peraltro poggiava su fondamenta poco solide, la Turchia è caduta in recessione. Nell’ultimo trimestre del 2018 il Pil si è contratto del 2,4% rispetto al trimestre precedente, il quale si era a sua volta concluso con un arretramento dell’1,6 per cento.
Il 2018 viene così archiviato con una crescita anemica, pari al 2,6 per cento. Rispetto al 7,6% del 2017 è davvero poca cosa. Del tutto insufficiente ad assorbire gli 800mila giovani che si affacciano ogni anno sul mercato del lavoro. Ma è anche inferiore all’obiettivo di crescita del Governo, corretto al ribasso lo scorso settembre al 3,8 per cento.
Il preoccupante calo dei consumi privati
Cosa ancor più preoccupante è la contrazione registrata dai consumi privati, ridottisi nell’ultimo trimestre del 2018 dell’8,9 per cento. Erano stati al centro della strategia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il quale, nel corso degli ultimi anni, aveva agevolato una serie di misure e prestiti statali a condizioni particolarmente generose rivolti ad imprese private e famiglie.
Un altro dato è significativo. Il reddito pro capite è tornato sotto la soglia psicologica dei 10mila dollari, per la precisione a 9.632 dollari.
Notizie che si sono subito riflesse sulla lira turca, svalutatasi del 30% nel corso del 2018 rispetto al dollaro americano. La valuta locale ha ceduto così questa mattina lo 0,5 per cento (da inizio anno ha perso il 3%).
Il braccio di ferro tra Erdogan e Banca centrale
Non è una sorpresa. Ma il colpo inferto a Erdogan è comunque pesante. Dopo esser stato riconfermato nella difficile elezione presidenziale dello scorso giugno, e aver iniziato a governare come un “super presidente” in virtù del passaggio della Turchia a presidenzialismo particolarmente forte, Erdogan ha continuato a insistere con la sua linea: i tassi di interesse sono nemici dell’economia turca.
Il presidente turco non aveva mai digerito bene i tre rialzi dei tassi decisi dalla Banca centrale, che lo scorso settembre li ha portati dal 17,75% fino al 24%, mantenendoli da allora invariati.
Il 2018 è stato proprio caratterizzato dal braccio di ferro tra Erdogan, deciso a condizionare la politica monetaria del Paese, e la Banca centrale, determinata a mantenere la sua indipendenza. Le scelte della Banca centrale si sono alla fine rivelate sagge: è riuscita a contenere l’onda dell’inflazione, volata a in ottobre sopra il 25%, e a far riguadagnare terreno alla lira turca nei confronti del dollaro, per quanto la svalutazione nell'anno appena concluso è stata di circa il 30 per cento. È stato proprio l’aumento dei tassi, insieme alla contrazione del deficit commerciale (quest’ultimo dovuto soprattutto al calo dei consumi e delle importazioni), ad aver contribuito a rafforzare la valuta turca. Se così non fosse accaduto ci sarebbero state le premesse per una crisi ben peggiore. Difficile dunque che in questo contesto, con la lira turca in pericolo di una ulteriore svalutazione, la Banca riduca i tassi (peraltro confermati appena due mesi fa).
Elezioni dietro l’angolo
Non è un periodo facile per Erdogan. Anche perché a fine marzo si terranno le elezioni amministrative. Nelle passate campagne elettorali Erdogan ed il suo partito, l’Akp (Partito Giustizia e Sviluppo), avevano fatto di quella formidabile crescita economica, che aveva comunque sollevato dalla povertà milioni di turchi, il loro cavallo di battaglia. Ora le cose sono cambiate, drasticamente. E nella prossima tornata elettorale la partita principale si gioca ad Ankara e a Istanbul, cuore economico e finanziario del Paese, che contribuisce al 31% del Pil nazionale.
A fine 2018, nel tentativo di guadagnare consensi, il presidente ha annunciato una serie di misure volte a tamponare gli effetti negativi del rallentamento dell'economia. Misure rivolte soprattutto alle fasce più povere della popolazione, da dieci anni lo zoccolo duro del suo elettorato.
L’inevitabile calo dei finanziamenti stranieri
L’economia della Turchia resta forte, ma è ancora malata. Per guarire occorrerà del tempo. Le previsioni di un pool di analisti consultati da Bloomberg indicano una fase di recessione anche per tutto il primo semestre del 2019. Anche perché Ankara non potrà contare troppo sul fondamentali finanziamenti privati stranieri. Nel secondo semestre del 2018, la fuga di capitali esteri è stata pari a 20 miliardi di dollari, gli investimenti si sono invece ridotti del 3,6%. E con pochi capitali stranieri diventa arduo per la Turchia percorrere la strada della ripresa economica voluta da Erdogan per i suoi elettori.
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