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Tutele, il numero dei dipendenti in Italia conta ancora

Ennesimo intervento della Corte costituzionale in materia di Jobs Act, questa volta in riferimento alle imprese che occupano meno di 15 dipendenti

di Gabriele Fava

(Adobe Stock)

2' di lettura

Ennesimo intervento della Corte costituzionale in materia di Jobs Act, questa volta in riferimento alle imprese che occupano meno di 15 dipendenti. Trattasi di una pronuncia che, seppur rimettendo la parola – come è giusto che sia – al legislatore, rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Roma – prosegue nell’opera di progressiva erosione della normativa del Jobs Act attuata dalla Corte costituzionale e che – nel solco delle precedenti – sembra lasciare qualche perplessità. Non bisogna dimenticare come il tessuto produttivo italiano sia per lo più costituito da piccole e medie imprese in riferimento alle quali trova proprio applicazione il regime speciale “di favore” oggetto di censura da parte della Corte costituzionale. La ratio alla base dell’intervento in esame consta nel fatto che – a detta della Corte – il numero degli occupati sia ormai poco significativo ai fini della valutazione dell’effettiva forza economica dell’impresa alla luce dell’evoluzione tecnologica che ha permesso di sostituire molti addetti ai lavori, tanto che non vi sarebbe più alcuna ragione per differenziare il regime di tutela in caso di licenziamenti illegittimi sulla base del numero dei dipendenti. Trattasi di una considerazione che, a ben vedere, può valere – all’interno dello scenario italiano – per un pressoché limitato numero di imprese. La stragrande maggioranza dei datori di lavoro italiani che occupa meno di 15 dipendenti è costituita da vere e proprie piccole realtà per le quali una condanna al pagamento di un’indennità di gran lunga superiore a quella allo stato prevista potrebbe fungere da sinonimo di chiusura dell’attività. A differenza di quanto sostenuto dalla Corte, pertanto, il numero dei dipendenti continua a rispecchiare – per la stragrande maggioranza delle imprese – l’effettiva forza economica del datore di lavoro, tanto che il regime speciale previsto per le piccole imprese trova ancora oggi una propria ratio giustificatrice. Senza contare che non è proprio il periodo storico adatto per poter porre ostacoli alla crescita del tessuto produttivo italiano. Ma vi è di più. Un range così ampio (6-36 mensilità) all’interno del quale graduare la misura dell’indennità risarcitoria – come suggerisce la Corte – finirebbe per aumentare l’imprevedibilità e l’incertezza dell’esito giudiziario, impedendo all’impresa di valutare i costi che derivano dall’intimazione di un licenziamento. A ciò si aggiunga l’amplissimo – per non dire eccessivo – potere discrezionale che ne deriverebbe in capo al giudice. Non appare condivisibile, pertanto, l’assunto sostenuto dalla Corte per cui un’indennità costretta entro «l’esiguo divario» tra un minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità – come previsto attualmente – non possa adeguare l’importo alle specificità del singolo caso concreto al fine di permettere al lavoratore di ottenere un congruo ristoro nonché di fungere da deterrente all’intimazione di licenziamenti illegittimi.

Il numero dei dipendenti occupati continua a essere un requisito essenziale per graduare le tutele invocabili dal lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, dal quale non risulta possibile prescindere. Per garantire un “congruo” ristoro al lavoratore illegittimamente licenziato, si correrebbe il rischio di sacrificare la restante parte della forza lavoro occupata presso l’impresa.

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