«Tutte le volte che vedo un bambino che non ce la fa a guarire, impazzisco»
Il top manager del colosso farmaceutico AstraZeneca è la prova che talento e curiosità portano lontano. Anche quando il punto di partenza è un istituto agrario
di Paolo Bricco
6' di lettura
«Guarda quel tavolo là in fondo. Sì, quello ricoperto con il lenzuolo bianco. Se fossimo venuti un’ora fa, avremmo visto le donne che tiravano la sfoglia delle tagliatelle e dei tortelli per il pranzo di oggi». Maurizio Scaltriti – uno degli scienziati italiani più reputati nelle nuove forme di cura al cancro – è tornato dagli Stati Uniti in Italia per qualche settimana.
Alla Trattoria Tre Spade di Correggio, è di casa. «Mi ha chiamato tuo padre – dice l’oste – ho tenuto libero per voi l’angolo più tranquillo». Sulle pareti sono appese le foto di Francesco Guccini e di Luciano Ligabue: «Luciano è più grande di me di 13 anni. Io giocavo a calcio con suo fratello Marco», racconta Maurizio, che fra pochi giorni compirà cinquant’anni.
La carriera
Scaltriti, dal 2020, è Vice President della medicina traslazionale nel dipartimento di oncologia di AstraZeneca.
La sua disciplina rappresenta il punto di raccordo fra la ricerca di laboratorio e la clinica. Nella costruzione piramidale di questo gruppo, è separato soltanto da tre ordini gerarchici dal Ceo, Pascal Soriot, e guida un gruppo di 150 scienziati, negli Stati Uniti (fra Gaithersburg in Maryland, Boston e New York) e in Inghilterra (a Cambridge).
«La medicina traslazionale prova a rispondere a una delle domande insieme più affascinanti e crudeli: perché alcuni pazienti rispondono a un farmaco e guariscono e perché altri, invece, non lo fanno e muoiono. Quando ero al Massachusetts General Hospital della Harvard Medical School di Boston, una paziente ammalata di cancro al seno morì. Non posso dire il nome. Ma il suo gesto ha rappresentato un passaggio fondamentale nella ricerca dei tumori. Questa ragazza, che era molto consapevole della centralità della scienza nella nostra società e nella nostra cultura occidentale, donò il corpo alla ricerca. Io e gli altri specialisti che l’avevamo curata facemmo una autopsia immediata. E, grazie ai molti campioni di quelle metastasi, riuscimmo a capire, con uno studio poi pubblicato su Nature, che il tumore in quella ragazza acquisiva resistenza al farmaco ogni volta che il suo Dna aveva perso il gene PTEN. Da quella scoperta siamo partiti per trovare nuove cure farmacologiche», spiega Maurizio.
Il legame con la terra di origine
Il lambrusco scuro frizza nei bicchieri. «Conosco il figlio del produttore, Alessio Lini», racconta Maurizio.
L’Emilia è tante cose insieme. Una ospitalità affettuosa ma non affettata. Una cura per il cibo e per il bere che è cura per l’umore, il corpo e l’anima, che qui sono un tutt’uno.
Ma l’Emilia è anche la quiete e la regolarità che, all’improvviso, senza che nessuno se ne accorga, mutano in altro, imponendo nuove traiettorie ed esprimendo nuove forme di energie inattese nella vita di chi è nato e cresciuto da queste parti.
Mentre l’oste ci porta il menù scritto con il gesso su una lavagna, Maurizio racconta la sua divergenza rispetto al destino tracciato dalle Feste dell’Unità e dal ricordo dello zio Vasco capo partigiano ucciso da nazi-fascisti nella vicina Novellara, dalle partite di pallone con gli amici e da quel benessere che si respira anche adesso, ottimismo sempre e pazienza se la crisi si avverte anche qui, perché alla fine al massimo ci si sente un filo meno ricchi di una volta, ma non ci si sente mai più poveri.
«Mi sono diplomato all’istituto agrario professionale di Correggio. Alla maturità ho preso 48 su 60. Mia mamma Marisa, che ha fatto la terza media, era infermiera nell’ospedale cittadino. Mio papà Giuseppe aveva un negozio di prodotti per l’agricoltura e il giardinaggio e curava il podere di famiglia, con i campi coltivati a susine, patate, zucche e uva da lambrusco. In estate, già da ragazzo, lo aiutavo nei campi e nei mercati: dal mattino alle sette alla sera alle nove. Io e mio fratello abbiamo dormito nella stessa stanza fino alla notte prima che lui sposasse la sua fidanzata Lorena. Mio papà, che ha la quinta elementare, ha sempre avuto un rispetto sacro per due cose: il lavoro e l’istruzione. Quando dissi in famiglia che volevo andare all’università, lui mi rispose: “Va bene, basta che fai in fretta”. Mi sono iscritto a veterinaria a Bologna. E non so che cosa mi sia successo. Mi è cambiato qualcosa nella testa. Studiavo con grande piacere e in maniera forsennata e sistematica. Ma non per l’ansia del dovere fare in fretta o per la paura di sostenere gli esami. Lo facevo per interesse. Aiutavo mio padre nei campi e nei mercati dal 15 luglio al 15 agosto, dopo la sessione estiva e prima della sessione autunnale degli esami. Stavo sui libri anche il giorno di Natale e il primo dell’anno. Per usare un’espressione di quando eravamo ragazzi, mi aveva preso la scimmia di capire i meccanismi che governano l’infinitamente piccolo».
Scaltriti chiede all’oste di preparare un antipasto che è – quasi – la sintesi sontuosa di tutti gli antipasti indicati sulla lavagna. Erbazzone, salame cotto, prosciutto crudo, salame crudo, coppa, gnocco fritto, pezzi di parmigiano reggiano delle vacche rosse con stagionatura doppia da 24 e da 40 mesi («le vacche rosse sono poche migliaia di capi», spiega Maurizio), aceto balsamico con cui bagnare il formaggio. Tutto accompagnato, appunto, dal lambrusco.
Il dottorato all’estero
Dopo la laurea in veterinaria, Maurizio ha frequentato il dottorato di ricerca in biologia molecolare per un anno a Modena, per un anno e mezzo a York in Inghilterra e per sei mesi a Barcellona. Nel 2004, vince un posto da ricercatore a Parma, «ma ho preferito la prospettiva di una carriera all’estero, in particolare grazie al rapporto con José Baselga, un geniale catalano che mi ha chiamato al Vall d’Hebron Institute of Oncology di Barcellona, dove sono stato sei anni, e che poi ho seguito negli Stati Uniti, prima a Boston e poi a New York, al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center».
Arrivano i primi: lui prende i tortelli, io invece le tagliatelle con i fiori di zucca. Maurizio quasi si scusa a ripetere le cose che dicono tutti gli espatriati per ragioni culturali e professionali: «Lo so che è una litania ripetuta sempre, ma purtroppo è vero. La qualità migliore del sistema italiano è la formazione di chi arriva alla laurea. Una formazione molto solida. Migliore dello standard internazionale. Con, in più, una forte capacità di lettura critica. La caratteristica peggiore è il potere dei baroni universitari. Questo blocca ogni ascesa dei giovani talenti. In Spagna, per esempio, non è così. A Barcellona esiste un ambiente aperto, competitivo, internazionale».
L’oste, portando via i piatti dei primi vuoti, chiede se siamo interessati a dell’altro erbazzone. E non è che debba insistere molto.
Tra scienza, vita e morte
Maurizio riprende il filo del discorso, nella sua descrizione del gomitolo rappresentato da scienza-tecnologia-salute-desideri personali-vita e morte che rappresenta uno dei cardini dell’Occidente: «Ho operato bene nell’accademia. Ma, alla fine, la ricerca sfocia sempre nella proposta di una tua scoperta, o di una tua ipotesi di lavoro, all’esterno. A un certo punto ho sentito una frustrazione: non potevo fare qualcosa direttamente per il paziente. Il mio passaggio nell’industria farmaceutica è motivato, anche, dalla possibilità di confrontarmi in maniera più stringente con la realtà finale della malattia. La medicina traslazionale, nel perimetro di un grande gruppo, è molto efficace. Perché valorizza la tua funzione di membrana analitica e operativa fra la ricerca oncologica, la clinica negli ospedali con i malati di tumore e il potenziale tecnologico e scientifico, finanziario e strategico di una multinazionale. AstraZeneca ha stretto un accordo con il Memorial Sloan-Kettering, per l’accesso alla banca dati composta da 100mila Dna di tumori, la più importante al mondo».
«Quando vedo un bambino che non ce la fa, impazzisco»
Scaltriti ha, dell’Emilia, la sensibilità concreta e di terra: «Tutte le volte che vedo un bambino che non ce la fa a guarire, impazzisco. Credo che possa essere molto utile personalizzare il più possibile le cure. E, anche per questo, ho detto di sì quando un collega che si occupa di medicina d’urgenza nella provincia di Modena, Giorgio Pasetto, mi ha proposto di fondare una startup con questo orientamento».
Quattro anni è nata Medendi: Scaltriti ha il 34% del capitale, Pasetto il 54 per cento. La società supporta i pazienti oncologici realizzando analisi basate sulla proteomica (dalle proteine si risale al tipo di cancro) e sulla genomica classica.
Quindi, dispone di una tecnologia chiamata minimal residual disease, una tecnica capace di diagnosi ultra-precoci per le recidive dei tumori.
Il comitato di specialisti a cui vengono sottoposti i casi specifici è composto dall’élite internazionale di biologi e medici, oncologi e genetisti. Una concentrazione di mezzi e di persone resa possibile dalla posizione di Scaltriti: «Stiamo concludendo il primo round di raccolta dei capitali. Abbiamo già ottenuto 1 milione e 400mila euro tra equity e finanziamento da investitori privati e imprenditori».
E, mentre usciamo sotto i portici con sottobraccio lo gnocco fritto e l’erbazzone avanzati e il saluto ad alta voce dell’oste, mi viene in mente come l’Emilia – in fondo l’Italia – abbia in Maurizio Scaltriti – dalla Correggio agricola al Big Pharma internazionale – l’esempio di come la canzone di Ligabue «Una vita da mediano/ Da chi segna sempre poco/ Che il pallone devi darlo/ A chi finalizza il gioco/ Una vita da mediano/ Che natura non ti ha dato/ Né lo spunto della punta/ Né del 10 che peccato» non sia affatto vera. Per fortuna di Maurizio, dell’Emilia e dell’Italia.
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