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Successioni 4, tutti meschini e cattivi fino all’ultimo

Si conclude, all’insegna della perfidia, la saga dei Roy per il controllo dell’azienda di famiglia

di Gianluigi Rossini

Triste, solitario y final. Jeremy Strong è Kendall Roy, uno dei figli del capofamiglia Logan

4' di lettura

Se le serie tv vi interessano anche solo un po’, non vi sarà sfuggita la notizia della conclusione di Succession (su Sky Atlantic; domani andrà in onda anche la versione doppiata in italiano), che con la quarta e ultima stagione è entrata definitivamente nell’Olimpo della serialità statunitense, in quel ristretto club che comprende The sopranos, The wire, Mad men, Breaking bad e pochi altri capolavori. Una tradizione di grandi epiche americane forse prossima all’estinzione: ci sono molti titoli interessanti in corso, ma nessuno tra essi ne raccoglie davvero l’eredità come ha fatto, appunto, Succession, perché il mercato ormai sta andando altrove.

Il male

Una delle caratteristiche che accomuna tutte queste serie è la rappresentazione del male attraverso protagonisti negativi, spesso criminali, contravvenendo alla ferrea regola televisiva per cui è necessaria la presenza di almeno un personaggio positivo, con il quale lo spettatore possa identificarsi. Succession ha portato questa trasgressione a un estremo mai raggiunto: non solo non c’è un protagonista, non solo non c’è un polo positivo, ma manca un qualsiasi punto di identificazione. Tutti i personaggi sono infallibilmente meschini, patetici, riprovevoli, ridicoli.

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I Roy

La famiglia protagonista, i Roy, possiede un impero mediatico globale al cui centro c’è ATN, canale aggressivamente di destra modellato su Fox News. Il patriarca Logan Roy, accentratore e dispotico, ha sempre avuto il comando, ma ora la vecchiaia incombe e i tre figli sono pronti a scannarsi per l’inevitabile guerra di successione. Chi erediterà il top job e diventerà Ceo? Il predestinato ma fragile Kendall, il sottovalutato e buffonesco Roman o l’intelligente ma inesperta Shiv? Logan, nonostante la salute che peggiora, non accetterà mai di farsi da parte, e per il proprio vantaggio non esita a sminuire, umiliare, manipolare e mettere l’uno contro l’altro i figli. Figli che, a loro volta, sono dei bambini viziati, incrollabilmente convinti di meritare la corona nonostante le loro inadeguatezze, ciechi di fronte alla propria inettitudine. Intorno a questa famiglia si muove una cerchia di manager opportunisti, ipocriti, pronti ad accoltellarsi alle spalle per uno scatto di carriera. Eppure, nel corso di quattro stagioni, Succession è riuscita nel miracolo di farci appassionare alle vicende di questi personaggi, facendoli diventare parte del nostro vissuto quotidiano. Come è stato possibile?

È ironico che una delle ultime grandi epiche americane sia stata creata da uno sceneggiatore inglese, Jesse Armstrong, precedentemente conosciuto per le due geniali comedy, Peep show e The thick of it. Entrambe condividono molti elementi con Succession: innanzitutto l’estetica da mockumentary, con camera a mano, inquadrature ostruite, visibili cambiamenti di messa a fuoco, bruschi zoom. È un effetto di realismo fondamentale, che rimuove il glamour dalla rappresentazione della ricchezza e dà allo spettatore l’impressione di spiare la vita privata dei membri dell’élite, di entrare nelle segrete stanze del potere, dove i re rivelano di non essere all’altezza della posizione che ricoprono. Meravigliosi sono i dialoghi, dai pezzi di bravura con raffiche di giochi di parole cinici, alla creatività degli insulti, alle sequele iperrealiste di intercalari, inciampi, tautologie alla “It is what it is”. Tutto questo crea un amalgama unico di satira velenosa, soap opera e tragedia.

Da un lato, Succession è una sorta di romanzo a chiave che ben rappresenta l’attuale intreccio tra media, capitale e politica, ulteriormente complicato dall’arrivo dei giganti del settore tecnologico. I Roy richiamano i Murdoch, come spesso è stato detto, ma anche i Redstone (CBS e Viacom), i Maxwell, e le molte altre dinastie di baroni dei media presenti in tutto il mondo, Italia compresa. La famiglia concorrente Pierce ricorda i Bancroft, che vendettero il rispettabile «Wall Street Journal» al demonio Murdoch. L’imprenditore svedese Matsson è un incrocio tra Elon Musk e Daniel Ek (fondatore di Spotify). Il vero potere non deriva solo dai soldi, ma soprattutto dal possesso dei media, dalla possibilità di influenzare l’opinione pubblica di “controllare la narrazione”, come si dice spesso. Da questo punto di vista, sebbene nessuno venga risparmiato, la serie esprime un giudizio chiaro e severo su quanto lo stile Murdoch abbia avvelenato il dibattito pubblico.

A un livello più profondo, Succession è una tragedia shakespeariana del terzo millennio: è la storia di una famiglia che ha cresciuto i propri figli nella più letterale applicazione della competizione capitalista, con il risultato di averli resi degli adulti completamente disfunzionali. La domanda che sta alla base di tutta la serie è: come funziona l’amore (genitoriale, filiale, fraterno, coniugale) in una cultura in cui l’unico valore è la razionalità dell’agire economico? Come si articola l’affettività, di cui nessun essere umano può essere privo, in un mondo in cui si dà per scontato che tutti abbiano sempre come primo obiettivo il guadagno individuale? Entro quale limite il sano egoismo diventa un agente del caos che ci porterà tutti alla distruzione?

Come solo le serie tv possono fare, Succession reitera queste domande, le approfondisce e le declina di episodio in episodio, mentre noi nel frattempo non possiamo evitare di entrare in relazione con questi personaggi così riprovevoli, di capirli e di ripetere, insieme a loro: «I love you, but...».

Jesse Armstrong, Succession, Sky Atlantic e NOW

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