storia e finanza

Tutti i «rally di guerra» del passato: perché le Borse salgono durante i conflitti

di Vittorio Carlini

5' di lettura

“Rischio-Escalation”. È la locuzione che rimbalza dalle sale operative. Dopo l’attacco di ieri, lanciato da Washington e i suoi alleati contro il regime di Assad, gli esperti temono l’effetto domino dell’intervento. Quello è il vero rischio, dal punto di vista dei mercati, che potrebbe impattare le Borse. Diversamente la variabile geopolitica, vocabolo con cui si tenta di semplificare situazioni complesse e ingrovigliate, potrebbe da un lato influenzare le contrattazioni di domani; ma, dall’altro, non dovrebbe avere effetti di lungo periodo.

Le Borse guardano alla Siria
«Le variabili geo-politiche - spiega Carlo Gentili, ad di Nextam - sono imprevedibili. I mercati, nel corso degli anni, hanno imparato a conviverci. E questo nonostante, come nel caso della Siria, i popoli coinvolti siano costretti a subire sofferenze orribili». Al di là di ciò «quello che è rilevante - aggiunge Angelo Drusiani, esperto di Albertini Syz -è lo scenario che potrebbe concretizzarsi». Vale a dire? «Se l’intervento rimane circoscritto, per quanto un simile vocabolo paia “stonato” parlando di bombe, i listini e i titoli di Stato subiranno qualche scossone. Per, poi, tornare su livelli di normalità». Diverso, invece, il caso in cui la situazione dovesse degenerare. «In quel contesto assisteremmo al calo dei corsi azionari e al rialzo dei rendimenti sui titoli governativi». Perlomeno, fino a quando le sorti dell’eventuale conflitto non si saranno indirizzate. «Se ad esempio - conclude Drusiani - l’esito delle ostilità fosse positivo per Washington e i suoi alleati le Borse potrebbero rialzare la testa».

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Ogni guerra è storia a sé...
Già, rialzare la testa. A ben vedere definire il comportamento dei listini con l’ “elmetto” è un’operazione complicata. Ogni conflitto, infatti, deve essere contestualizzato. Inoltre bisogna ricordarsi le differenze tra i vari combattimenti: dalla loro durata al numero di nazioni coinvolte fino alla localizzazione geografica degli scontri. Ciò detto un modo per tentare di capire quali sono le reazioni delle Borse all’evento bellico è quello di guardare a cosa e accaduto nel passato. Analizzare l’andamento di un listino che, ovviamente, deve essere stato in grado di mantenere sempre aperti (o quasi) gli scambi durante il tuonare dei cannoni.

...ma ci sono tendenze di fondo
Una prima interessante valutazione arriva da un’inchiesta realizzata da Mark Hulbert. Il noto commentatore statunitense ha analizzato le reazioni di Wall Street a fronte della guerra in sette occasioni: Grenada ’81; Panama ’89; Guerre del Golfo ’91 e ’93; Afghanistan ’01; Libia ’11. Nel mese antecedente lo scoppio del conflitto la Borsa Usa ha perso in media lo 0,6%. Successivamente, nei primi trenta giorni di guerra, il listino è invece cresciuto del 4%. Il rialzo, poi, è arrivato fino alla media del 7,2% sull’arco dei 6 mesi. Insomma: nel periodo di attesa del futuro conflitto i corsi azionari calano. Poi, nel momento in cui la guerra scoppia davvero la Borsa alza la testa. Il che pare controintuitivo.
«Ma non è così - spiega di Mark Hulbert -. La dinamica ha la sua logica. Il mercato non ama l’incertezza. Fintanto che non si sa se la guerra ci sarà, oppure no, la volatilità aumenta» e, con essa, i ribassisti. Nel momento in cui, invece, inizia lo scontro l’alea viene meno. Diminuisce la volatilità e partono gli acquisti. Certo: questo vale soprattutto «in casi di conflitti di breve durata e ben definiti». E, tuttavia, la dinamica di fondo esiste ed è chiara.

Cosa insegna la storia
Al di là delle considerazioni di Hulbert, è possibile realizzare un’altra analisi. Vale a dire: guardare a cosa è successo, sempre a Wall Street, nei principali conflitti che si sono succeduti dalla I° Guerra Mondiale in poi. Il risultato è significativo: i numeri indicano che la Borsa non “disdegna” la guerra. Il Dow Jones, durante la Prima Guerra Mondiale, è salito (+21,2%). La stessa dinamica al rialzo la si riscontra, poi, nel secondo conflitto mondiale: tra il primo settembre del 1939 (invasione della Polonia da parte dei nazisti) e l’8 maggio 1945 (resa della Germania agli alleati) l’indice Usa ha guadagnato circa il 23%. Un trend replicato anche nell'arco di tempo in cui l’America è stata direttamente coinvolta nella guerra. A ben vedere, risalendo verso i giorni nostri, il consuntivo positivo del Dow Jones con l’ “elmetto” non è raro. Lo si ritrova nella guerra di Corea (+19,6%) e nello stesso conflitto in Vietnam (+20,5%). Più contenuto, invece, il ritorno del paniere azionario durante le due Guerre del golfo.

Le indicazioni degli esperti
A fronte di un simile scenario il signor Rossi domanda: perchè queste dinamiche? Alcuni esperti come Giuseppe De Luca, professore di Storia economica alla Statale di Milano, sottolineano il fatto che si tratta di contesti in cui l’investitore, sperando nei maggiori guadagni delle attività legate all’industria di guerra, è indotto all’acquisto delle azioni di quei comparti. Settori che, non va dimenticato, nel passato avevano un peso maggiore rispetto a oggi. Di conseguenza il loro impatto era notevole. Non solo. Larry Neal, professore emerito di Economia all’Università dell’Illinois aggiunge che «l’espansione del debito pubblico, dovuto all’incremento della spesa del Governo a sostegno dell’impegno bellico, fa aumentare la quantità di titoli scambiabili. Il che spinge i volumi del business oggetto di potenziale compravendita».

Il cosiddetto “turning point”
Poi, ovviamente, bisogna sempre distinguere ogni contesto e considerare più in particolare ciascun singolo conflitto. Un esempio? Lo offre la II° Guerra Mondiale. Qui , fino all’aprile del 1942, si assiste al calo del Dow Jones. Poi, nella seconda metà dell’anno c’è l’inversione di tendenza. Perché? Gli esperti, seppure
non tutti sono d’accordo, sottolineano che in quel periodo, da una parte, l’avanzata dei nazisti in Europa perde slancio (la terribile battaglia di Stalingrado volge a favore dell’armata sovietica); e, dall’altra, la stessa flotta nipponica subisce la sconfitta nell’arcipelago delle Midway. Insomma: si susseguono diversi eventi che inducono a pensare che la guerra si stia indirizzando a favore degli alleati. Si concretizza, in altre parole, un punto di svolta. Un “turning point” in cui si concretizza la fiducia che possa esserci l’esito positivo del conflitto. Di lì gli investitori incominciano a spingere il listino.

Il mondo Europeo
Fin qui alcune considerazioni riguardo alla Borsa statunitense. Quali, invece, le reazioni degli altri listini? Guardando ai mercati in Europa emerge proprio uno dei distinguo necessari a comprendere i reali effetti di una guerra. Nel Secondo conflitto mondiale molte Borse del Vecchio continente, seppure fossero proseguiti gli scambi in nero soprattutto di derrate alimentari, furono chiuse. Dal che, è ovvio, si desume come il listino di Paesi materialmente colpiti dal conflitto, quali quelli europei, non potesse avere alcuna reazione simile (o anche diversa) a quella di Wall Street.

La rivoluzione tecnologica
Ciò detto, avvicinandosi ai giorni nostri, la dinamica al rialzo durante il “tuonare” dei cannoni è, seppure in misura più limitata, confermata sulle piazze del Vecchio continente. Anzi! Si nota una certa corrispondenza. Capire il perché di questa crescente simmetria è difficile. Un argomento però, di là dal confronto tra Europa e Stati Uniti, è quello dell’evoluzione hi-tech. In seguito alla rivoluzione informatica, dagli anni ’90 in poi l’economia ha accelerato la sua conversione al mondo high-tech. Quindi la domanda legata al settore militare può avere un minore impatto sugli stessi listini. Non solo. L’incredibile evoluzione tecnologica (da molti scienziati giustamente criticata e osteggiata) nel mondo delle armi potrebbe non consentire più, attraverso il classico moltiplicatore keynesiano, la spinta al Pil tanto nota nel passato. La speranza? Che prima o poi l’umanità riesca ad eliminare le economie legate alla guerra.
Twitter/carlini_Vittorio

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